Deseamos poner a disposición de quienes estén interesados en el conocimiento de las virtudes, ensayos, artículos y estudios que puedan servir como material de trabajo y reflexión, y abrir un marco de colaboración para todos aquellos que deseen participar en un diálogo interdisciplinar sobre una cuestión de tanta trascendencia para la vida moral de la persona y de la sociedad. Coordina: Tomás Trigo, Facultad de Teología de la Universidad de Navarra. Contacto Tomás Trigo
Tesis de Licenciatura presentada en la Facultad de Teología de la Universidad de Navarra, 2007.
Sommario
Abbreviazioni utilizzate
Introduzione
1.La virtù dell’affabilità nella Sacra Scrittura.
1.1Benevolenza, benignità, mitezza e clemenza nell’Antico Testamento.
1.2. La mitezza del Messia.
1.3 “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”
1.4. Conclusione.
2.Cenni sulla virtù sociale dell’affabilità nel mondo classico.
2.1 Platone e le virtù del dialogo
2.2 La virtù aristotelica delle relazioni sociali (affabilità in senso proprio)
2.3 La filantropia, fondamento dell’amicizia.
2.4 La benevolenza, inizio dell’amicizia
2.5 La comitas e l’adfabilitas di Cicerone, parte della giustizia.
2.6 Conclusione
3.Affabilità, mitezza e carità in alcuni Padri della Chiesa
3.1 Il De Officiis di sant’Ambrogio.
3.1.1 Giustizia e benevolenza.
3.1.2 La franchezza del consigliere.
3.2 San Giovanni Crisostomo
3.2.1 Mitezza e “dono” dello Spirito Santo
3.2.2 Educazione e cortesia, virtù cristiane
3.2.3 La virtù dell’apostolo: equilibrio tra adulazione e correzione fraterna
3.3 San Girolamo.
3.3.1 Adulazione, litigio e benignitas.
3.3.2 Dolcezza, frutto dello Spirito Santo.
3.4 Sant’Agostino
3.4.1 La carità, il dono visibile dello Spirito Santo nel cristiano
3.4.2 I miti, il dono di pietà e il regno di giustizia
3.4.3 La correzione e il litigio, la veracità e l’adulazione
3.5 Conclusione.
4.La virtù dell’affabilità in san Tommaso
Introduzione
4.1 La virtù della convivenza umana
4.2 Le parti potenziali della giustizia
4.3 La virtù sociale dell’affabilità
4.4 Vizi contrari all’affabilità
4.4.1 “Compiacere gli altri oltre i limiti dell’onestà”: l’adulazione
4.4.2 “Coloro i quali contraddicono per contristare”: il litigio
4.5 Affabilità e veracità
4.6 Affabilitas, amicizia e carità
4.7 Affabilità e temperanza.
4.8 Beatitudine dei miti, dono di pietà e frutti dello Spirito Santo.
4.9 “In terris visus est et cum hominibus conversatus est”
Conclusioni
Bibliografia
Vulg................. Vulgata
NV.................... Neo Vulgata
PG.................... MIGNE, Patrologia Latina
PL.................... MIGNE, Patrologia Greca
Etica................ ARISTOTELE, Etica Nicomachea
Politica..............ARISTOTELE, Politica
Abbreviazioni per san Tommaso
Super Sent..............Scriptum super libros Sententiarum
S.Th.......................Summa Theologiae
Super Matth.............Lectura super Mattheum [Reportatio Leodegarii Bissuntini]
Super Iohann...........Lectura super Iohannem. Reportatio
Super Cor................Expositio et lectura super Epistolam ad Corinthios
Super Gal................Expositio et lectura super Epistolam ad Galatas
Super Phil................Expositio et lectura super Epistolam ad Philippenses
Super Col................Expositio et lectura super Epistolam Colossenses
Super Tit.................Expositio et lectura super Epistolam ad Titum
Sent. in Ethic...........Sententia libri Ethicorum
Sent. Politic.............Sententia libri Politicorum
q...........................Questione
a. .........................Articolo
co. ........................corpo dell’articolo
Ad.........................risposta all’obiezione
Riferendosi in particolare alle qualità umane dei presbiteri, il Concilio Vaticano II ricorda che “di grande utilità risultano quelle virtù che giustamente sono molto apprezzate nella società umana, come ad esempio la bontà, la sincerità, la fermezza d'animo e la costanza, la continua cura per la giustizia, la gentilezza e tutte le altre virtù che raccomanda l'apostolo Paolo quando dice: ‘Tutto ciò che è vero, tutto ciò che è onesto, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è santo, tutto ciò che è degno d'amore, tutto ciò che merita rispetto, qualunque virtù, qualunque lodevole disciplina: questo sia vostro pensiero’ (Fil 4, 8)”[1].
Giovanni Paolo II, con un riferimento a questo passo del Decreto conciliare, completa l’elenco di virtù aggiungendo “la pazienza, la facilità a perdonare con prontezza e generosità, l’affabilità, la socievolezza, la capacità di essere disponibili e servizievoli senza posare a benefattore. E tutto un ventaglio di virtù umane e pastorali che la fragranza della carità di Cristo può e deve portare nella condotta del Presbitero”[2]. Sono alcune delle caratteristiche di quella che Giovanni Paolo II denominò nello stesso intervento “carità pastorale”, che è frutto dell’imitazione di Cristo “mite e umile di cuore”[3].
Sembra fare eco a queste parole il recente invito del Santo Padre Benedetto XVI a “essere sempre pronti a dare risposta (apo-logia) a chiunque ci domandi ragione (logos) della nostra speranza (…). Dobbiamo rispondere ‘con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza’ (1 Pt 3,15-16), con quella forza mite che viene dall’unione con Cristo”[4].
Presentando l’importanza della virtù per il cristiano in generale, anche il Catechismo della Conferenza Episcopale Italiana offre interessanti spunti su alcune virtù annesse alle virtù cardinali: “Tra le molte virtù che si collegano a queste [alle virtù cardinali] si possono ricordare: semplicità, onestà, sincerità, lealtà, fedeltà, cortesia, rispetto, generosità, riconoscenza, amicizia, coraggio, audacia, equilibrio, umiltà, castità, povertà, obbedienza. Le buone qualità danno concretezza alla perfezione cristiana. Danno alla carità un corpo e un volto”[5].
Il presente lavoro si occupa di una di queste virtù collegate alle virtù cardinali, cioè l’affabilità; la materia è suddivisa in quattro parti. I due primi capitoli offrono una base scritturistica (cap. 1) e filosofica (cap. 2) all’indagine. La ricerca prosegue (cap. 3) con l’analisi di come questa virtù viene presentata da alcuni Padri della Chiesa; molti dei temi che vengono affrontati serviranno come presentazione dell’argomento centrale dello studio, cioè l’affabilità in san Tommaso d’Aquino, che presenta – come si avrà modo di vedere – una sintesi di quanto era stato detto in precedenza. Ciascuno dei primi tre capitoli termina con alcune conclusioni sintetiche, mentre le conclusioni del quarto saranno quelle dell’intera ricerca.
Il passo che si riporta di seguito, sintetico ed espressivo, può servire come introduzione e spiegazione circa le ragioni dell’interesse di uno studio particolare sull’affabilità:
“Mediante l’affabilità si rafforzano i vincoli di fraternità e di solidarietà, che costituiscono le norme principali dell’umana convivenza (…). Come risposta ad una esigenza del cuore umano, l’affabilità rinnova la regola d’oro nelle relazioni sociali: parlare e comportarsi con gli altri allo stesso modo in cui ognuno vuole essere trattato (cfr. Mt 7, 12). Anzi, i poveri, gli emarginati, i rifugiati meritano una dose straordinaria di affabilità (…). Serve a ben poco una semplice compassione (o un piangere insieme sulle disgrazie altrui) che non comporti un efficace rimedio. L’affabilità diventa un aiuto positivo, perché si basa, a parte l’efficacia dell’amore di Dio, sulla fiducia nella persona, capace di un rinnovamento interiore e della soluzione dei problemi che sorgono ad ogni passo del cammino. L’atteggiamento di passività del soggetto, dunque, lo spirito di adulazione o, peggio ancora, la connivenza con la situazione sofferta non sono coerenti con la forza rinnovatrice di questa virtù”[6].
La parola classica latina adfabilitas significa in italiano moderno cortesia, affabilità o bontà; è la virtù di chi “si comporta con il prossimo in modo sereno, cortese e piacevole”[7]. L’etimologia dell’aggettivo ad-fabilis fa pensare a qualcuno al quale si può rivolgere la parola con facilità. Nel latino classico, per adfabilis si conoscono sinonimi quali comis, benignus, benevolus, urbanus; inoltre, gli avverbi comiter e benigne rendono a volte il significato di adfabiliter. Tutti questi termini, poi, sono almeno parzialmente riconducibili al concetto di humanitas, che è una colonna portante dell’intero pensiero classico latino[8].
Nell’attuale versione italiana della Bibbia[9], il vocabolo affabilità appare solo due volte. La prima in Sir 4, 8: “Porgi l'orecchio al povero e rispondigli al saluto con affabilità”; l’altro luogo è la raccomandazione della lettera ai Filippesi: “la vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini”[10].
Il termine affabilis appare nella Neovulgata e nella Vulgata non in Sir 4, 8, ma nel versetto precedente (7): “Congregationi affabilem te facito”, che viene reso in italiano con “fatti amare dalla comunità”; si tratta dell’unica ricorrenza della parola latina nell’intera Bibbia. Sia nella Vulgata sia nella Neovulgata, invece, si trova l’aggettivo latino mansuetus per l’occorrenza di Sir 4,8 e il sostantivo modestia per quella della lettera ai Filippesi. Sir 4, 7 è probabilmente all’origine della scelta di san Tommaso di chiamare “affabilitas” quel medius habitus che “cum tamen sit innominatus, licet apud nos affabilitas nominari”[11].
Anche solo queste prime sommarie approssimazioni permettono di notare una certa oscillazione nella scelta della parola con la quale significare il concetto di affabilità, che lascia supporre che anche l’area semantica non sia delimitata precisamente. Non si intende qui condurre un’analisi filologica rigorosa delle parole collegate al concetto di “affabilità” e nell’Antico e nel Nuovo Testamento, che richiederebbe uno studio scritturistico e linguistico dettagliato e diffuso, a partire dall’ebraico e dal greco.
Si intende invece, più semplicemente, rivisitare alcuni passi della Scrittura per gettare qualche luce sulle parole che indicano i concetti che, con l’andare del tempo, connoteranno la virtù sociale chiamata in teologia morale cortesia o affabilità, mantenendosi invece al margine delle questioni che richiedono un’erudizione filologica specialistica.
Prima di tentare una presentazione sistematica delle caratteristiche di questa virtù, basti in questo momento la bella presentazione che ne fece Giovanni Paolo II in un’omelia dei primi tempi del suo pontificato, a partire dal commento della Visitazione della Madonna a santa Elisabetta (cfr. Lc 1, 44):
“Il trasalimento di gioia di Elisabetta sottolinea il dono che può essere racchiuso in un semplice saluto, quando esso parte da un cuore colmo di Dio. Quante volte il buio della solitudine, che opprime un’anima, può essere squarciato dal raggio luminoso di un sorriso e di una parola gentile! Una buona parola è presto detta; eppure a volte ci torna difficile pronunciarla. Ce ne trattiene la stanchezza, ce ne distolgono le preoccupazioni, ci frena un sentimento di freddezza o di egoistica indifferenza. Succede così che passiamo accanto a persone che pur conosciamo, senza guardarle in volto e senza accorgerci di quanto spesso esse stiano soffrendo di quella sottile, logorante pena, che viene dal sentirsi ignorate. Basterebbe una parola cordiale, un gesto affettuoso e subito qualcosa si risveglierebbe in loro: un cenno di attenzione e di cortesia può essere una ventata di aria fresca nel chiuso di un’esistenza, oppressa dalla tristezza e dallo scoramento. Il saluto di Maria riempi di gioia il cuore dell’anziana cugina Elisabetta”[12]
Questa descrizione identifica gli atti dell’affabilità con la parola cordiale, il gesto affettuoso, il sorriso, il saluto, il cenno di attenzione e di cortesia; questa virtù consiste nella prima manifestazione visibile della carità. L’affabilità si fonda sulla carità, poiché parole e gesti sgorgano “da un cuore colmo di Dio”, cioè da un’anima in grazia, nella quale risplende una luce che deriva dall’inabitazione trinitaria. Gli ostacoli per vivere questa virtù sono identificati nella freddezza, nell’egoismo, nell’indifferenza, e anche nell’incapacità di superare la stanchezza e le preoccupazioni.
Si può dire che con l’attuale termine “affabilità” si esprima in realtà tutto un insieme di qualità, che sono presentate nell’Antico e nel Nuovo Testamento attraverso diversi termini, i cui significati e le cui aree semantiche in parte si sovrappongono. Vale pertanto la pena di analizzare in maniera sintetica queste parole, sulla scia di alcuni studi che sono considerati ormai classici[13].
Aristotele, quando tratta della virtù sociale oggetto della nostra indagine, non la identifica con alcun nome specifico[14]; trattando invece di una virtù che è per certi aspetti simile all’affabilità, la nomina utilizzando la parola greca eunoia[15]; saremmo pertanto portati a pensare che questo termine, che viene solitamente tradotto in italiano con “benevolenza”, possa essere il più adeguato anche nella Sacra Scrittura. Al contrario, eunoia compare nell’Antico Testamento soltanto per indicare i rapporti di benevolenza e concordia tra i concittadini (per esempio, 2Mac 12, 30 oppure 2Mac 14, 37), oppure la devozione e fedeltà del suddito nei confronti del suo padrone (cfr. per esempio Est 3, 13c, 1Mac 2, 33.53)[16].
Nel Nuovo Testamento ci sono solo tre occorrenze del termine eunoia. In 1Cor 7,3 siamo di fronte a una circonlocuzione, che non pare pertanto essere significativa in questo contesto. In Mt 5, 25 la parola fa riferimento alla “riconciliazione”, nella raccomandazione di trovare un accordo con l’avversario prima di andare davanti al giudice. Ef 6, 7 parla di un servizio prestato “di buona voglia”; entrambi i casi rimandano al contesto, già riscontrato nell’Antico Testamento, dei rapporti di devozione del servo nei confronti del padrone[17], oppure a quelli di concordia tra uguali.
Si può quindi concludere che nel greco della Sacra Scrittura la parola eunoia rimanda per lo più ai concetti di benevolenza e devozione, e non riguarda l’area semantica della benevolenza/affabilità che si trova in Aristotele.
Le parole greche che nella Sacra Scrittura fanno riferimento ai concetti di dolcezza, affabilità e bontà sono varie e non sempre utilizzate in modo univoco; oltretutto, la loro traduzione latina nella Vulgata è spesso cangiante. Esse sono essenzialmente tre: praotes (reso frequentemente dalla NV con la parola latina mansuetudo e dall’italiano “mitezza”), krestotes (benignitas o “benignità”), epieicheia (clementia o “clemenza”)[18].
Nell’Antico Testamento, in estrema sintesi, si può dire che la benignità (krestotes) è attributo fondamentalmente divino, come appare chiarissimo soprattutto nei Salmi[19], al quale corrisponde la gratitudine e la devozione della creatura. La mitezza (praotes) possiede nell’Antico Testamento il significato tradizionale profano di virtù moderatrice della collera, al quale si aggiunge però quello di pazienza unita all’umiltà[20]; la mitezza è la risposta del giusto di fronte alla sofferenza e alla difficoltà, ma anche il suo atteggiamento abituale nella vita quotidiana, secondo quanto raccomanda Sir 3, 17: “Figlio, nella tua attività sii modesto, sarai amato dall’uomo gradito a Dio”[21]. Nel contempo, tuttavia, nella praotes si può riscontrare l’atteggiamento modesto, abbordabile, affabile caratteristico di chi ha sofferto ed ha imparato ad essere docile; nell'Antico Testamento questa docilità è connotata dalla pazienza e va vissuta innanzitutto con Dio. Nel già citato versetto del Siracide, nel quale la NV rende con la parola “affabilità” la praotes greca, si trova comunque un contesto chiaramente collegato alle buone maniere, all’apertura disinteressata nei confronti del prossimo, ancorché povero, manifestata con parole e gesti di disponibile mitezza[22]. In definitiva, sia la praotes sia la krestotesdesignano una dolcezza piena di tatto; ma la prima connota un’umiltà fondata sul rispetto, con atteggiamento sostanzialmente passivo; la seconda rimanda a un’idea attiva di beneficenza, propria di Dio e di quegli uomini nei quali risplende la gioia della carità.
Il termine epieicheia, in greco profano, esprime il giusto equilibrio, la proporzione ragionevole nel giudizio, associata spesso alla prudenza del capo; in latino, clementia esprime la capacità di addolcire il castigo, di perdonare. Nella versione greca della Bibbia dei LXX, pressoché tutte le occorrenze della parola epieicheia riflettono il significato del greco classico; non si tratta mai di una caratteristica attribuita a una cosa, ma sempre a Dio o a una persona costituita in autorità e capace di manifestare misericordia[23]. In questo senso, è un vocabolo vicino a krestotes.
Un concetto collegato ai precedenti è espresso da un’altra parola greca, epiotes, la cui traduzione letterale sarebbe “privo di rughe, pulito”. Esso è presente solo una volta nell’Antico Testamento[24], mentre in 2Tim 2, 24–25 la epiotes si trova associata alla praotes, tra le qualità del pastore, a indicare la mansuetudine e la mitezza che egli è chiamato a possedere. La traduzione dell’aggettivo proposta dalla NV è mansuetus, anche se pare che la qualità descritta sia in realtà la lenitas, la levigatezza esteriore, cioè l’assenza di asperità. Per inciso, si può notare che l’etimologia della parola francese politesse deriva dal latino politus, e mantiene proprio questa connotazione di assenza di asperità nel carattere.
Vale la pena di ripercorrere una bella sintesi di questi concetti presentata da Ceslas Spicq a conclusione di un suo erudito e noto articolo al riguardo. La clemenza (epieicheia) indica soprattutto la condiscendenza, la bontà di un superiore nei confronti di un inferiore, e in questo senso è in stretto rapporto con la benignità (krestotes). La mitezza/mansuetudine (praotes) consiste in una sorta di bontà estesa a tutti, e che possiede quindi un oggetto più vasto. La benignità e la clemenza richiedono l’esercizio della misericordia, mentre la mitezza quello dell’umiltà. Clemenza e mitezza sono accomunate dal senso della misura; la clemenza, insieme alla benignità, rimanda all’arte di saper accogliere il prossimo, che si traduce in affabilità. La benignità è tuttavia innanzitutto una virtù interiore, che nasce dal timor di Dio o dall’amor di carità; mentre la clemenza e la mitezza sono piuttosto esteriori, e moderano la condotta e le parole[25].
Il Nuovo Testamento ignora sostanzialmente il concetto di eleganza e raffinatezza cortese[26], anche se loda invece la delicatezza, senza escludere il buonumore e l’ingegnosità di spirito, come si può vedere in Col 4, 6: “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno”. Anche 1Pt 3, 16 corrisponde a un contesto simile: dopo aver incoraggiato a “rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”, si aggiunge la raccomandazione: “Tuttavia, questo si faccia con dolcezza e rispetto”[27]. La parola latina scelta per rendere “dolcezza” (praotes in greco) è mansuetudo.
Un’analisi attenta dell’utilizzo di queste parole che determinano alcuni dei connotati dell’affabilità nella Sacra Scrittura fa notare come esse, mentre sono differenziate abbastanza chiaramente nell’Antico Testamento, diventino invece sostanzialmente intercambiabili nel Nuovo Testamento, essendo tutte più o meno collegate al concetto basilare di agape–caritas, cioè all’essenza del messaggio cristiano[28].
Nella spiritualità cristiana, l’idea di mitezza rimanda direttamente all’Antico Testamento: quando Gesù si definisce “mite e umile di cuore”, lo fa in continuità con la fede israelita dei Salmi e dei Profeti, poiché la mitezza è qualità messianica, collegata all’umiltà[29]. Per definire la mitezza di Cristo, la parola utilizzata da Matteo è praotes, che mantiene quindi in questo caso il connotato di pazienza/docilità.
Tuttavia, se nell’Antico Testamento questa mitezza/pazienza era virtù da vivere innanzitutto con Dio, Gesù unisce nelle Beatitudini i miti, i poveri e coloro che soffrono. Sembra quindi trattarsi di qualcosa di più profondo e radicale rispetto alla virtù della cordialità/affabilità che interessa la nostro ricerca. Sono questi i lineamenti del Servo di Dio, sofferente, spogliato di tutto, il quale sopporta l’umiliazione e merita così la salvezza per l’uomo[30]. Quando san Paolo, rivolgendosi ai Corinzi con accorata esclamazione, li esorterà “per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2Cor 10, 1), lo farà ricorrendo ai termini greci praotes ed epieicheia; il riferimento non sarà tuttavia tanto alla mitezza del carattere di Gesù, quanto piuttosto alla sua kenosis, l’umiliazione redentrice del Messia, momento centrale della redenzione[31].
Dove invece si vede la mitezza del carattere di Gesù è in numerosi episodi del Vangelo, tanto che si può affermare che l’affabilità sia una virtù propriamente cristiana. Cristo si comporta con somma delicatezza verso i bisognosi; si commuove dinanzi alle miserie umane, ma offre un rimedio nel segno dell’affabilità: “Io sono mite e umile di cuore”[32]. Sa dialogare con persone di ogni categoria: sapienti come Nicodemo[33], persone socialmente non ben accette come Zaccheo[34] o la Samaritana[35]. Gesù sa ascoltare pazientemente e mettere l’interlocutore a suo agio, si avvicina a ciascuno con semplicità, infonde fiducia al primo saluto e facilita l’apertura del cuore. Ancora più significativo è che persone di tutti i tipi gli si avvicinino senza timore: i bambini[36], i malati[37], il giovane ricco, che corre incontro a Cristo e lo chiama spontaneamente “buono”[38]. E forse l’episodio più emblematico è il lungo colloquio con i discepoli di Emmaus, che lascia intuire come l’affabilità e la cordialità siano intimamente collegate al dialogo apostolico[39]. In coerenza con questi tratti della personalità di Gesù, è stato detto che l’affabilità è l’attuazione della regola aurea del Vangelo (cfr. Mt 7, 12), e che è la sintesi dei rapporti che devono intercorrere tra gli uomini, secondo lo spirito cristiano[40].
Il significato delle parole greche che abbiamo avuto modo di esaminare finora viene notevolmente arricchito nel corpus paulinum. Nella lettera ai Filippesi (Fil 4, 5), come è già stato notato, si ha l’unico luogo nella versione italiana moderna della Bibbia nel quale è presente la parola “affabilità”, che rende il greco epieicheia (e il latino modestia). Si tratta senz’altro di una qualità molto vicina a quanto intendiamo oggi con la parola affabilità, una caratteristica che dev’essere “nota a tutti”, e pertanto ben visibile. Considerazioni simili si possono fare per l’invito di Col 3, 12 a rivestirsi di sentimenti di bontà (krestotes, benignitas) e mansuetudine (praotes,mansuetudo), che vale la pena di riportare per intero:
“Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!”[41].
In alcuni altri elenchi di qualità presenti nel corpus paulinum, si trovano riferimenti di un certo interesse. A Timoteo, l’Apostolo – oltre a giustizia, pietà, fede, carità, pazienza – raccomanda la “modestia” dove il latino mansuetudo rende il greco praotes[42]; e, usando lo stesso termine, afferma che un “servo del Signore non dev’essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare”[43]. Raccomandazioni analoghe sono quelle, rivolte a Tito, “di non parlare male di nessuno, di essere mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini”[44]; e i termini utilizzati sono epieicheia (per l’esortazione alla modestia/mansuetudine) e praotes (per quella alla dolcezza), a riprova del fatto che il campo semantico di tutte queste parole non sia rigidamente delimitato. Si sta facendo riferimento, comunque, a virtù assai vicine all’affabilità, che esprime un atteggiamento di apertura nei confronti di tutti gli uomini[45].
Una menzione speciale merita il noto elenco dei frutti dello Spirito Santo, della lettera ai Galati[46], tra i quali si trovano la “benevolenza” (krestotes, benignitas), “bontà” (agathosyne[47], bonitas) e la “mitezza” (praotes, modestia). Senza bisogno di addentrarsi in un’analisi approfondita delle sfumature che distinguono questi termini, si può affermare che in ciascuno si riscontra qualche elemento dell’affabilità; soprattutto il testo è importante perché è la base dell’interpre-tazione di questa qualità non solo come virtù, ma anche come frutto dello Spirito Santo.
In definitiva, l’affermazione di 1 Cor 13, 4 che “la carità è benigna” (in cui si utilizza il terminekresteyetai, e il latino benigna), in uno dei momenti culmine della ricchezza espressiva degli scritti paolini, non si sta esprimendo un connotato generico della carità, ma la qualità che fa riconoscere nel cristiano quel riflesso visibile della grazia, nel contempo affabile e indulgente verso chiunque condivida la nostra condizione umana[48].
La ricerca fin qui condotta intorno alla presenza dell’affabilità nella Sacra Scrittura ci consente di affermare che esista continuità tra Antico e Nuovo Testamento nell’utilizzo di alcune parole particolarmente dense di significato.
Non esiste tuttavia alcun vocabolo nel linguaggio biblico per esprimere precisamente ciò che intendiamo oggi con la parola affabilità. Si può invece sostenere che vi sia un chiaro fondamento biblico per questa virtù, strettamente unita alla carità, del quale è come il volto esterno e immediatamente visibile.
A mo’ di sintesi, si può segnalare la liturgia del Messale Romano prevista per la Domenica dedicata alla Sacra Famiglia, che presenta alcuni dei temi e testi principali che sono stati fin qui analizzati: l’orazione colletta invita i fedeli a imitare la Famiglia di Nazaret nelle “virtù domestiche e nei legami di carità”[49]; la prima lettura, tratta dal Siracide[50], presenta i rapporti che devono intercorrere tra i famigliari; la seconda lettura è il brano della lettera ai Colossesi[51] che è stato citato e commentato sopra, e il Vangelo presenta diversi episodi dell’infanzia di Gesù[52]; e l’Antifona alla Comunione è la profezia del profeta Baruc, che ricorda che Dio “e apparso sulla terra e ha vissuto fra gli uomini”[53], divenendo così il modello dei rapporti personali nella famiglia e nella società.
nel mondo classico
Il vocabolo greco philia possiede un’ampiezza semantica assai più estesa dell’italiano amicizia. La philia può esprimere tutti i sentimenti di affetto e di attaccamento verso gli altri, e proprio in questa valenza di legame benevolente verso il prossimo si calibra il fondo comune che è sotteso alla diverse determinazioni che il concetto può assumere. Esso può indicare l’amore per le persone o le cose “nostre” (perché appartenenti alla propria famiglia), oppure per le persone “buone”; può inoltre fare riferimento alle relazioni affettive interpersonali, che sono il terreno proprio dell’affabilità o dell’amabilità, che possono estendersi anche agli stranieri (xenophilia) o perfino a tutti gli uomini (philantropia). Infine, la parola philia – ed è questa l’accezione più comunemente utilizzata per indicare l’amicizia in senso pieno – può indicare il rapporto di amore, di reciproca benevolenza, vissuto consapevolmente tra due persone[54].
Si può dire che l’affabilità o cortesia, nel contesto più ampio dell’amicizia, riguarda soltanto un aspetto per così dire “esterno” della philia greca, senza andarne a toccare il nucleo profondo, mentre essa non pare avere rapporti con l’altra grande parola greca che riguarda l’amore, l’eros. A proposito della parola agape, che è l'espressione della novità della concezione cristiana dell'amore, si può affermare che essa indichi la fonte e la radice dell’affabilità, come di ogni altra virtù sociale; come è noto, tuttavia, la parola agape non è molto utilizzata nella letteratura greca non cristiana[55].
Il concetto di philia in rapporto con quello di eros è un tema centrale della filosofia di Platone[56]. Limitando l’analisi, come si è anticipato, a quanto riguarda più da vicino la virtù dell’affabilità, si può dire che il filosofo affermi l’esistenza di una virtù che chiama benevolenza e che è come una condizione previa per il dialogo. A questo proposito, è significativo il modo in cui Platone la descrive tra le caratteristiche del saggio, in un noto brano del Gorgia:
“Colui che vuole saggiare veramente un’anima per accertare se essa vive rettamente o no, deve avere tre qualità (…): scienza (episteme), benevolenza (eunoia) e franchezza (parresia). Io infatti trovo molti uomini che non sono in grado di saggiarmi, perché non sono sapienti come te; altri invece sono sapienti, ma non vogliono dirmi la verità, perché non si prendono cura di me”[57].
Alla benevolenza Platone affianca quindi anche l’aspetto di “dire la verità”, proprio della virtù della franchezza; ci si sta quindi muovendo in un ambito affine a quello della virtù sociale dellaveracità, che – come si avrà modo di studiare – san Tommaso presenterà in una questione di poco precedente a quella sull’amicitia seu affabilitas, che con essa ha stretti rapporti[58].
Nel libro VI della Repubblica troviamo un brano ancor più significativo, nel quale si descrive il modo in cui il filosofo ama la verità e realizza in sé le maggiori virtù. Si può leggerlo come una sorta di trattazione sulle virtù sociali:
– Dopo ciò vedi un po’ se quegli uomini che vogliono essere all’altezza delle nostre esigenze non debbano di necessità avere nella loro natura, oltre all’altro, anche questo carattere.
– Di quale carattere parli?
– Della sincerità: che essi siano ben consapevoli di non dover mai cedere alla menzogna. La odino, anzi, per amore della verità.
– E’ probabile, disse.
– Caro amico, non solo è probabile, ma assolutamente necessario che l’uomo naturalmente propenso all’amore ami tutto ciò che è congenere o affine agli oggetti del suo amore. […].
Una persona siffatta sarà anche temperante e per nulla attratta dalle ricchezze […]. E allora? l’uomo posato, che non si lascia sedurre dalle ricchezze; l’uomo tutt’altro che meschino, misurato nelle parole e coraggioso potrebbe forse essere scorbutico e ingiusto?
– No di certo.
– E allora anche a questi caratteri dovrai guardare, quando si tratterà di discernere l’animo filosofico da quello non filosofico; e dovrai farlo fin dall’inizio, finché l’uomo è giovane, se vuoi davvero distinguere la sua attitudine alla giustizia, se è socievole o intrattabile e rozzo[59].
Come si vede, si sta qui facendo un esplicito riferimento a diversi aspetti, tra i quali emergono la sincerità, il senso della misura e la cortesia nei modi che va mantenuta nelle relazioni pubbliche; una certa socievolezza viene qui considerata virtù distintiva dell’uomo giusto; in essa è contenuta anche la capacità di evitare la litigiosità (che sarà poi considerata da Aristotele il vizio per difetto dell’affabilità). In un brano del Protagora, si legge:
“Fra amici e amici si discute con benevolenza, mentre tra avversari e nemici si contende. E così la nostra riunione sarebbe bellissima, e voi interlocutori ricevereste da noi ascoltatori la nostra approvazione, non la nostra lode: infatti, l’approvazione nasce nell’anima degli ascoltatori senza che sia possibile l’inganno, mentre la lode è spesso anche nelle parole di coloro che mentono e dicono il contrario di quello che pensano”[60].
L’interesse particolare di questo passo risiede nel fatto che vi si trova descritta la qualità del conversare amabilmente (chiamata qui di nuovo “benevolenza”) e un ostacolo che vi si oppone, che consiste nella lode che sorge dall’ipocrisia, che potrebbe essere considerata una definizione di adulazione. Aristotele considererà l’adulazione come il vizio per eccesso dell’affabilità; anch’essa è quindi messa in rapporto con la veracità/sincerità.
Un contributo di Platone interessante per il nostro studio è dato dalla presentazione sistematica delle quattro virtù che verranno poi chiamate cardinali; si tratta di una sistematizzazione che non è raccolta da Aristotele, ma che invece, attraverso la mediazione stoica, sarà ripresa da Cicerone e giungerà così ai Padri della Chiesa. Le virtù sociali cominceranno allora ad essere considerate come parti della virtù della giustizia. A mo’ di esempio a questo proposito si può citare un brano delle Leggi che elenca le virtù cardinali:
“Si trova al primo posto, in posizione preminente, la saggezza; al secondo, subito dopo, l’intelligenza, l’atteggiamento temperante dell’anima. Terza viene la giustizia che nasce dalla mescolanza di questa virtù con il coraggio. Al quarto posto, infine, mettiamo il coraggio”[61].
Più avanti, Platone sottolineerà l’importanza di dare priorità alle virtù essenziali dicendo che “una certa sopravvivenza e una certa felicità, almeno per quanto è in potere dell’uomo” si possa garantire ponendo “al primo posto nella scala dei valori i beni dell’anima temperante”[62].
La breve serie di citazioni dai Dialoghi di Platone ci ha consentito di ritrovare alcuni elementi propri delle virtù sociali, e in particolare dell’affabilità, o cordialità mostrata nel parlare e nei gesti. Come si è potuto riscontrare, Platone non indica con un termine specifico questa virtù, ma ne mostra diverse manifestazioni. Vale la pena di sottolineare che il “dialogo”, la conversazione su temi elevati e quella che si svolge nel quotidiano, a tavola o tra amici, risulti essere il luogo per eccellenza dove esercitare l’affabilitas; non stupisce pertanto che nell’autore dei Dialoghi si vedano delineati alcuni aspetti basilari di questa virtù[63].
Aristotele dedica due libri dell’Etica Nicomachea alla trattazione dell’amicizia (philia), considerandola strettamente legata alla virtù e alla felicità. Per Aristotele, il termine philiapossiede tuttavia un’estensione assai più ampia di quella che può avere per noi la parola “amicizia”; esso esprime infatti “ogni sentimento d’affetto o di legame che si prova verso gli altri, sia spontaneo sia riflesso, dovuto alle circostanze o alla libera scelta: amicizia propriamente detta, amore, benevolenza, beneficenza, filantropia. Si tratta insomma di altruismo, disocievolezza. L’amicizia è il legame sociale per eccellenza, che mantiene l’unità tra i cittadini di una stessa città, o tra i compagni di un gruppo, o tra i soci di un affare”[64]. Invece, egli non definisce con un nome specifico la virtù sociale dell’affabilità, lasciando così un margine di indeterminatezza intorno ad essa; anche per questa ragione non ci si limiterà a descrivere il passo dell’Etica Nicomachea che la tratta direttamente, allargando invece il discorso ad altri aspetti collegati, quali la filantropia e la benevolenza[65].
Nei capitoli 12-15 del IV libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele studia le disposizioni che riguardano le relazioni sociali, intese come le relazioni della vita d’intimità e della vita mondana. I temi riguardanti la giustizia, le relazioni proprie della vita pubblica e degli affari, saranno invece trattate nel libro V. La prima delle virtù sociali ad essere presentata – come si è detto – non possiede un nome specifico e riguarda l’amabilità nei modi, il garbo da utilizzare nelle relazioni[66]. Lo Stagirita esamina gli opposti eccessi di questa virtù, il cui giusto mezzo consiste nell’accogliere e respingere nel modo opportuno le cose che sono da accogliersi e quelle che sono da respingersi[67]:
“Nelle relazioni sociali, vale a dire nel vivere in intimità e nell’intrattenere rapporti di parole e di fatti, gli uni passano per essere compiacenti: si tratta di coloro che approvano ogni cosa per procurare piacere e non si contrappongono in niente, ma pensano di non dover procurare dolore a quelli con i quali si incontrano. Invece coloro che, al contrario di questi, si oppongono in ogni cosa e non hanno nessuna preoccupazione di procurare dolore, sono chiamati fastidiosi e litigiosi”[68].
Chi pecca per eccesso in quest’ambito è dunque il compiacente, cioè colui che approva ogni cosa con l’unica preoccupazione di risultare piacevole, oppure l’adulatore, che invece lo fa per conseguire vantaggi personali. Pecca invece per difetto il fastidioso o litigioso, che ha sempre da obiettare e non si preoccupa di provocare dolore. Aristotele afferma che questa innominata virtù assomiglia all’amicizia, pur differenziandosene per il fatto di non comportare sentimenti d’affetto nei confronti di coloro verso i quali si tratta.
“Infatti, si avrà lo stesso comportamento sia verso gli sconosciuti che verso coloro che si conoscono, sia verso i familiari che verso gli estranei, tranne che come è adatto in ciascuna di queste relazioni. Ché non sarà conveniente avere ugual cura per i familiari e per gli estranei, né metterli sullo stesso piano quando si tratta di causare loro un dolore”[69].
In altre parole, Aristotele afferma che di principio dobbiamo sforzarci di essere cordiali, di far piacere e di evitare di causare dolore nelle relazioni correnti con gli altri, ma che nel contempo conviene pensare alle conseguenze di questa affabilità. Si deve infatti rifiutare di mostrarsi troppo cordiali quando un assenso dato alla leggera potrebbe compromettere la reputazione o l’interesse nostro o delle persone alle quali diamo l’approvazione; si deve quindi dare priorità a considerazioni relative all’onore e all’utilità.
“Inoltre, [il virtuoso] intratterrà relazioni differenti con le persone di rango elevato e con i primi che capitano, con chi conosce di più e con chi conosce di meno, e parimenti rispetterà anche le altre differenze, conferendo a ciascuna categoria di persone ciò che e conveniente, di per sé scegliendo di procurare piacere ed evitando di causare dolore, badando alle conseguenze (…), intendo dire alla bellezza morale e all’utile. E in vista di un grande piacere nel futuro, causerà piccoli dolori”[70].
In conclusione del capitolo, Aristotele ribadisce che chi possiede questa virtù non viene chiamato in alcun modo particolare; il virtuoso “affabile” è colui che si colloca nel giusto mezza tra l’eccesso di chi è troppo compiacente o adulatore, e chi è invece litigioso o fastidioso.
All’inizio del capitolo VIII dell’Etica Nicomachea troviamo la celebre trattazione dellaphilantropia, concetto chiave per l’intera classicità sia greca sia latina. Si tratta di uno dei luoghi dove meglio si vede l’ampiezza del concetto di amicizia in Aristotele:
“L’amicizia può essere ingenita per natura in chi procrea verso la creatura e nella creatura verso il genitore, non soltanto negli uomini, ma anche negli uccelli e nella maggior parte degli animali; e negli individui di una stessa specie è ingenita l’amicizia degli uni verso gli altri, e principalmente negli uomini: donde lodiamo i filantropi ” [71].
Il termine “filantropo” è assai presente negli scritti di Aristotele: “amico degli uomini” si dice innanzitutto delle creature non appartenenti alla specie umana; gli dei e gli animali, e per questi ultimi si intende il caso in cui siano addomesticati[72]. La filantropia aristotelica consiste in un sentimento di simpatia che ci rende partecipi della sofferenza di un'altra persona, unicamente in quanto è uomo.
Può sembrare che questa apertura universale di amore al genere umano sia in contraddizione con le idee politiche di Aristotele, difensore dell’inquadramento rigido della polis greca, e pertanto della netta distinzione degli schiavi rispetto agli uomini liberi. E’ tuttavia significativo che subito dopo il brano citato, lo Stagirita affermi che “si può osservare anche nei viaggi come ogni uomo sia un essere familiare per l’uomo, ovvero un essere amico”[73], postulando così l’esistenza di una filantropia più ampia, che si apre aldilà dei confini della polis. Per inciso, si può notare che i rapporti con gli stranieri e con i viandanti possono essere considerati come le occasioni tipiche per esercitare l’affabilità.
Se da una parte va ricordato che ammettere contraddizioni nel pensiero aristotelico sia qualcosa di tollerabile e forse inevitabile, dall’altra non si può negare che esistano nell’Etica più d’una affermazione del carattere universale della filantropia, come si vede nel brano seguente:
“Non vi è amicizia per gli oggetti inanimati, né giustizia. E non si può averne per un cavallo o per un bue, né per uno schiavo in quanto schiavo, giacché non vi è niente in comune. Infatti lo schiavo è uno strumento animato, e lo strumento è uno schiavo inanimato. In quanto schiavo, dunque, non vi è amicizia verso di lui, ma in quanto uomo, giacché – ad avviso unanime – ogni uomo ha un rapporto di giustizia verso chiunque è capace di partecipare a una legge o a un contratto. Pertanto vi può essere anche amicizia, nella misura in cui è uomo”[74].
Lo schiavo in quanto uomo possiede la natura umana, e questo è in fondamento della possibilità di nutrire amicizia nei suoi confronti. Nella Politica, Aristotele proseguirà il ragionamento, giungendo ad affermare l’esistenza di una comunanza di interessi tra lo schiavo e il suo padrone, dal momento che lo schiavo ha bisogno di ricevere ordini dal padrone per il proprio bene; e in tal modo, in contraddizione formale con il brano dell’Etica sopra citato, si afferma che lo schiavo ha pertanto diritto alla giustizia e all’amicizia anche in quanto schiavo, e non solo in quanto uomo[75].
Questo inquadramento del concetto di filantropia può aiutare a collocare nel contesto più ampio del pensiero etico aristotelico l’apertura a priori all’altro che è uno dei connotati caratteristici della virtù dell’affabilità.
Aristotele definisce la “benevolenza” (eunoia) nel libro IX dell’Etica Nicomachea. Innanzitutto, essa viene distinta nettamente dall’amicizia: “la benevolenza ha l’aspetto di un sentimento di amicizia, ma certamente non è amicizia. Infatti, si ha benevolenza anche verso chi non si conosce ed essa può restare celata, l’amicizia no”[76]. L’amicizia può dunque nascere soltanto nei confronti di chi si conosce, mentre la benevolenza può esistere anche verso uno sconosciuto. La benevolenza viene distinta anche dall’amore-affetto (philesis), perché è priva dei suoi requisiti essenziali, che sono lo slancio e il desiderio, insieme alla frequentazione abituale. La benevolenza è invece l’inizio dell’amicizia e può trasformarsi in questa se perdura nel tempo, attraverso il frequentarsi abituale.
Sganciare la benevolenza dall’amicizia e dal desiderio possiede delle implicazioni di notevole portata, che sono ben espresse da Gauthier-Jolif:
“Amare non suppone solamente un’intensità di sentimento che non comporta la benevolenza; amare indica soprattutto un desiderio che è estraneo alla nozione stessa di benevolenza. Colui che ama non può accontentarsi soltanto di desiderare il bene della persona che ama per sé stessa e senza contraccambio, ma necessariamente la desidera, vale a dire desidera averla per sé, nel possesso amoroso o nell’intimità virtuosa. Aristotele non poteva dire più nettamente di non concepire l’amore-dono dell’agape: se la benevolenza non è il puro amore-desiderio che è l’eros, la sua philesis– ed a fortiori la sua philia, giacché questa vi aggiunge un’esigenza di reciprocità – unisce indissolubilmente il dono al desiderio”[77].
La ragione per la quale si è voluto presentare questo discorso risiede nel fatto che esso costituisce uno dei temi dove appare forse in modo più evidente come concezione morale e politica cristiana trascendano il pensiero greco classico. La virtù dell’affabilità non resta che sulla soglia di queste tematiche, ed è per questa ragione che ci si è presi la libertà di trattarle in modo così sommario; ma proprio a partire dagli ulteriori sviluppi che la filosofia cristiana apporterà al discorso si potrà vedere come l’affabilità e la cordialità siano virtù soltanto se e quando sono manifestazione della carità, dell’agape, dell’amore di Dio in noi che traspare nelle parole e nei gesti[78].
Il concetto greco di philia venne reso da Cicerone con la parola latina amicitia, la cui etimologia egli fa risalire alla parola amor[79]; si può notare come, anche a motivo della differenza linguistica esistente tra il greco e il latino, risultava difficile trovare una traduzione letterale delle riflessioni aristoteliche sulla philia. Sia l’amor sia l’amicitia – afferma Cicerone – derivano dal verbo amare, che è sinonimo di diligere, cioè “voler bene a chi si ama, senza nessun bisogno, senza chiedere nessun vantaggio”[80]. Accanto ad Aristotele, in realtà, è noto che Cicerone si rifà soprattutto alla morale degli stoici, privilegiando Panezio, il quale scrisse un’opera in tre librisui doveri, che non è giunta fino a noi[81]. I vocaboli scelti da Cicerone nella trattazione delle virtù sociali avranno un notevole influsso sulla riflessione successiva, nella patristica latina e fino a san Tommaso d’Aquino.
Il termine adfabilitas appare in Cicerone solo una volta, in un capitolo del De Officiis che è riferito all’eloquenza nel parlare, e distingue tra l’oratoria e il discorso familiare. L’affabilità viene indicata come metodo efficace per convincere:
“E’ straordinariamente grande il fascino che esercitano sugli animi anche la cortesia e l’affabilità del parlar familiare. Ci restano lettere (…) nelle quali i padri raccomandano ai figli di conciliarsi la benevolenza della moltitudine con amorevole linguaggio, e di ammansire l’animo dei soldati rivolgendo loro lusinghiere parole”[82].
Prima di proseguire la descrizione della cortesia, ci soffermeremo brevemente sulla collocazione di questa e di altre virtù sociali secondo Cicerone. Sarà utile premettere che le virtù romane, rispetto alla concezione ellenistica, sono più pratiche, quasi una concretizzazione empirica delle virtù cardinali platoniche e poi stoiche; esse sono la pietas, la fides, la constantiae la gravitas, che, armonizzandosi tra loro, definiscono la virtus romana, vale a dire la caratteristica che definisce il bonus vir e il bonus cives [83]. La virtus è considerata quale base e prerequisito per l’amicizia, che non si può dare tra persone malvagie e non può essere considerata semplice connivenza di interessi, basata sull’utile: essa in realtà è ben di più: “non è altro che una grande armonia di tutte le cose umane e divine, insieme con l’affetto”[84].
Cicerone – seguendo probabilmente Panezio – colloca le virtù sociali all’interno della giustizia, identificandone le parti nel seguente modo:
“La giustizia è quella disposizione dell’animo che dà a ciascuno il suo e tutela con generosità la convivenza sociale degli uomini; ad essa sonno annesse la pietà, la bontà, la liberalità, la benignità, l’affabilità e tutte le altre di questo genere. E queste sono proprie della giustizia a tal punto da essere comuni alle altre virtù”[85].
Interessa qui sottolineare che, dopo la celebre definizione ciceroniana di giustizia, tra le partiadiunctae ad essa si trovano la bonitas, la benignitas e la comitas. Quest’ultima risulta essere assai vicina alla virtù dell’adfabilitas. Un’analisi semantica di queste parole ne distingue i significati: la benignitas conduce a prestare più di quanto sia dovuto per giustizia o ufficio, facendo tutto ciò che si è in grado di fare; la liberalitas è più orientata a regalare qualcosa di concreto; la comitas differisce dalle due precedenti in quanto si manifesta in parole dolci e benevole, mentre quelle si riferiscono piuttosto a cose e azioni[86]. Vale la pena di citare un altro brano nel quale le virtù sociali vengono messe in rapporto con l’utile e con la grandezza d’animo (excelsitas animi et magnitudo):
“In verità, l’elevatezza e la grandezza dell’animo, come pure la cortesia (comitas), la giustizia (iustitia), la liberalità (liberalitas), sono molto più conformi alla natura che non il piacere, la vita, le ricchezze; il guardar con disprezzo tutte queste cose e il non farne alcuna stima, in confronto con la comune utilità, è indizio di animo grande ed elevato”[87].
Il termine comitas viene quindi utilizzato spesso da Cicerone come sinonimo di adfabilitas, per indicare il tratto cortese e cordiale, che va unito all’amicizia:
“Occorre che si aggiunga a ciò [alla sincerità d’animo] una certa dolcezza di parole e di costumi, condimento di certo non mediocre dell’amicizia. Il cipiglio austero e la severità hanno in ogni occasione un certo peso, ma l’amicizia dev’essere più alla mano, più libera, più dolce e più incline all’affabilità e cortesia[88].
La cortesia e affabilità significate dalla comitas ciceroniana non si limitano a un semplice fare esteriore, perché la parola è intesa come il primo segnale della sociabilità del genere umano. Questo – afferma Cicerone sulla scia di Aristotele[89] – è il carattere che più ci allontana dagli animali, che possono avere coraggio e ardimento, ma non posseggono la giustizia, né l’equità, né la bontà, dal momento che essi sono privi di ragione e di parola. Si può qui riscontrare l’influenza della concezione aristotelica della sociabilità dell’uomo e dell’interrelazione tra tutti i membri della società, che si manifesta specialmente attraverso la parola e che Cicerone esprime ricorrendo a un’immagine poetica: “L’uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli risplende meno, dopo che ha acceso quella dell’altro”[90].
Altri approfondimenti relativi all’affabilità sono presenti nel De amicitia, che dedica diverse riflessioni a stigmatizzare il vizio dell’adulazione, che viene collegato al dovere di dire la veritàall’amico, anche quando questo implichi la necessità di correggerlo. Cicerone riconosce l’esistenza del rischio che la verità possa far nascere il risentimento:
“Dannosa è la verità, se da lei nasce l’odio che è il veleno dell’amicizia, ma l’adulazione è molto più dannosa perché, essendo indulgente con gli errori, lascia che l’amico precipiti in rovina (…). Nell’ossequio poi ci sia la cortesia, ma sia tenuta lontana il servilismo”[91].
Con una certa oscillazione nell’utilizzo dei termini, si afferma che l’ossequio (obsequium), la delicatezza nel parlare, deve essere unito alla cortesia (comitas), ma deve nel contempo rifuggire dall’adulazione (adsentatio). E poco dopo, ricorrendo all’auctoritas di Catone, di afferma che a volte i nemici “aspri” sono più meritevoli rispetto ai “dolci” amici, perché quelli dicono spesso la verità, mentre questi mai[92]. E, per sottolineare l’importanza di dire la verità nelle relazioni sociali – tema, come si è visto, già platonico –, il concetto viene ribadito nuovamente:
“Si deve ritenere che nelle amicizie non vi sia peste più grande che l’adulazione, la lusinga, il servilismo. Sebbene con diversi nomi si deve biasimare questo vizio di uomini superficiali e falsi, che parlano sempre per il piacere degli altri, mai per dire la verità”[93].
In altro luogo, Cicerone fa riferimento alla centralità di non cadere nel vizio contrario opposto all’adulazione, che a volte può essere causato dal giusto desiderio di rimproverare. La qualità di saper rimproverare senza esagerare è collegata alla mitezza e al dominio di sé, necessari per moderare l’ira:
“Si deve infatti sempre mostrare il nostro rispetto e il nostro affetto per quelli coi quali conversiamo. Talvolta sono necessari anche i rimproveri, e nel farli bisogna forse adoperare una maggiore intensità di voce e una più acerba gravità di parole (…). Nella maggior parte dei casi, basta fare un dolce rimprovero (…). E, anche in quei contrasti che sorgono tra noi e i nostri più fieri nemici, dobbiamo serbare tuttavia una dignitosa compostezza, reprimendo lo sdegno”[94].
Solo chi possiede le virtù, e tra queste il dominio di sé, può essere definito bonus vir e meritare la benevolentia dei suoi concittadini. Nel De Officiis, in un passo che tratta di come si conquista l’ammirazione e la fiducia degli uomini, Cicerone premette che essa si ottiene con gli stessi mezzi con cui si ottiene con ogni singola persona, che sono le virtù della liberalitas, dellabeneficientia, della iustitia, della fides; e, per riassumere tutte queste virtù, afferma che si tratta di possedere “tutte quelle doti che riguardano la mitezza dei costumi e la gentilezza d’animo”[95]. Dal fatto che i governanti posseggano queste virtù dipende la concordia e la pace per lo Stato.
Il percorso che è stato fin qui seguito ha messo in luce un passaggio importante, che meriterà ulteriori approfondimenti, e che consiste nel momento in cui la virtù sociale dell’affabilità–cortesia comincia ad essere elencata tra le parti della virtù cardinale della giustizia.
A questo proposito conviene tener presente la definizione classica della giustizia, come qualità dell’anima che rende propensi a dare a ciascuno ciò che gli è dovuto, che rispecchia una concezione assai antica, presente in Platone e Aristotele, e poi in Cicerone, sant’Ambrogio e sant’Agostino, che resterà comunemente accettata fino al secolo XIII[96]. In questa tradizione, la giustizia è, per dirla con parole di Pinckaers, una “inclinazione a dare agli altri di nostra spontanea volontà; si innesta sulla inclinazione naturale dell’uomo a vivere in società, la sviluppa e la attualizza. Va nella direzione dell’amicizia, che è il fine superiore delle leggi, secondo Aristotele, e sarà coronata dalla carità nella morale cristiana”[97]. E non è un caso che i primi moralisti cristiani, per indicare il culmine dell’amicizia, scelgano la parola latina caritas, già conosciuta e utilizzata da Cicerone nel De finibus bonorum et malorum, in un passo immediatamente precedente all’elenco, già citato, delle parti adiunctae alla giustizia:
“in tutto ciò che vi è di giusto – di questo stiamo parlando – non vi è nulla di più nobile né di più ampio respiro dell’unione degli uomini tra di loro, che è una specie di società, di comunanza di fini, un vero amore per il genere umano (communicatio utilitatum et ipsa caritas generis humani)”[98].
La giustizia è ciò che conferisce agli uomini il nome di buoni[99]. L’intrinseco rapporto che essa ha con la natura sociale dell’uomo sta alla base dell’inserimento delle virtù sociali all’interno dello studio della giustizia. Proseguendo lo studio su questa linea, si vedrà con san Tommaso come la realizzazione della giustizia non renda necessario dare soltanto ciò che è strettamente “dovuto”; esistono infatti cose che siamo tenuti a dare agli altri, senza che essi ce le possano esigere in senso legale; tra queste gli atti propri di alcune virtù sociali quali la veracità, la liberalità e l’affabilità[100].
Dal momento che uno studio sistematico sulla virtù dell’affabilità nei Padri della Chiesa richiederebbe di per sé un’intera monografia, si è pensato di presentare con cenni sintetici il modo con il quale sant’Ambrogio, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo e sant’Agostino fanno riferimento – in contesti tra loro diversi – a questa virtù. La scelta di autori e brani consentirà di mettere in luce alcuni aspetti collegati alla nozione biblica e classica analizzata nei capitoli precedenti, e che saranno significativi per le successive riflessioni di san Tommaso[101].
Se si considera l’imprecisione che si riscontra nella letteratura classica greca e latina, nonché nel lessico biblico, per definire con un termine specifico la virtù dell’affabilità, non è sorprendente che anche nei Padri il vocabolario relativo a questa virtù non sia univoco. I Padri greci utilizzano per lo più i termini ai quali si è fatto riferimento nel primo capitolo del presente studio[102]; i Padri latini, sulla scia di Cicerone, cominciano ad utilizzare il termine affabilitas, alternandolo – tra gli altri – con benignitas, bonitas e facilitas[103].
Tra le fonti principali della trattazione della giustizia che si trova nella Summa Theologiae di san Tommaso d’Aquino, un posto importante è occupato dal De Officiis di sant’Ambrogio; per questo motivo si è pensato di soffermare la nostra indagine su quest’opera ambrosiana. Il trattato è costituito da una raccolta di norme che il Vescovo di Milano rivolge ai sacerdoti (e probabilmente non solo), rifacendosi da vicino all’omonimo trattato ciceroniano, del quale riprende lo schema in tre libri, sull’honestum, sull’utile e sul confronto tra entrambi[104].
Nel libro I viene affrontato il tema classico del decorum, e nel commentarlo sant’Ambrogio descrive le quattro virtù cardinali, la prima delle quali è la prudenza[105]. La prudenza viene intesa come fons officii, cioè quale sorgente di ogni dovere, e viene quindi messa in stretto rapporto con la giustizia:
“E’ dovere di giustizia, anzitutto, la pietà verso Dio, poi verso la patria, in terzo luogo verso i genitori, e similmente verso tutti i nostri simili. E’ un precetto di natura, se è vero che, fin dall’inizio della nostra vita, non appena cominciano a svilupparsi i sentimenti, amiamo la vita come dono di Dio (…). Di qui nasce la carità, che fa preferire gli altri a sé stessi, senza esigere ciò che le appartiene, il che rappresenta l’ambito proprio della giustizia”[106].
L’aspetto forse più significativo in questo passo è che la portata della giustizia viene estesa all’intero genere umano, a differenza del passo parallelo ciceroniano[107]. Il discorso ambrosiano sulla giustizia affronta in realtà principalmente il tema della proprietà privata, con una critica dai toni assai forti dell’egoismo e dell’avarizia dei ricchi e dei prepotenti. Proprio per questa insistenza sulla tematica, sant’Ambrogio sarà citato varie volte da san Tommaso nella questione sulla virtù della liberalità[108].
Sant’Ambrogio distingue tra la benevolenza (volere bene al prossimo) e la beneficenza (fare il bene), che in realtà dipende dalla prima; la benevolenza sussiste innanzitutto nella Chiesa, e negli uomini dotati di analoghe virtù:
“La giustizia, inseparabile compagna della benevolenza, fa sì che amiamo quelli che crediamo uguali a noi. La benevolenza ha in sé anche la fortezza perché l’amicizia, derivante dalla benevolenza, non esita ad affrontare per l’amico pericoli mortali”[109].
Nel Libro II del De Officiis, nel corso dello studio del rapporto tra felicità e utilità, sant’Ambrogio specifica che nulla è più utile dell’affetto che si ottiene con le virtù. Tornando ad esaminarne alcune, come la mansuetudine, la beneficenza, la giustizia, il vescovo di Milano tratta a più riprese anche dell’affabilità, facendo riferimento proprio al brano ciceroniano nel quale tale virtù viene definita con la parola latina affabilitas[110]:
“Non dimentichiamo anzitutto che nulla è tanto utile quanto l’essere amati, e nulla tanto dannoso quanto il non essere amati (…). Preoccupiamoci allora di guadagnarci con ogni impegno la stima e la buona opinione altrui e di conquistarci con la serenità della mente e la benignità dell’animo l’affetto degli uomini. La bontà, infatti, è accetta alla gente e gradita a tutti, e non c’è nulla che più facilmente penetri nel cuore umano. Quando s’accompagna alla dolcezza e alla mitezza del carattere (mansuetudine morum ac facilitate), inoltre alla moderazione nel comando e all’affabilità nel parlare (affabilitate sermonis), all’efficacia nell’esprimersi ed anche al paziente ascolto nella conversazione e al fascino della modestia (modestiaeque gratia), riesce a guadagnarsi un affetto di incredibile intensità”[111].
Vengono qui presentate alcune virtù che rendono gradevole la convivenza sociale, e si delinea così una sorta di breve trattato sulla cortesia e sulle attenzioni da tenere gli uni con gli altri. Dopo aver affermato la connessione tra mitezza, benignità, bontà e affabilità, sant’Ambrogio sottolinea come queste virtù possano risultare decisive per guadagnare l’affetto altrui. Nel passo analogo, Cicerone tratta specificamente del rapporto tra i sudditi e chi possiede autorità, la cui forza dipende dall’amore e non dal timore dei suoi sottoposti[112]. E’ quanto sant’Ambrogio ricorda nel paragrafo immediatamente successivo a quello appena citato:
“Dalla storia sappiamo, non solo nel caso di privati cittadini, ma anche a proposito degli stessi re, quale vantaggio abbia loro recato la gentilezza d’una accattivante affabilità (facilitas blandae affabilitatis) o, al contrario, quale danno la superbia e la tracotanza nel parlare, così da mettere in pericolo gli stessi regni”[113].
Le virtù sono quindi la facilitas, la gratia, la affabilitas sermonis, che hanno stretti rapporti con lamodestia e la mansuetudo. Di seguito sant’Ambrogio indica in Mosè e Davide due modelli di mitezza e amabilità. Mosè in particolare è definito nell’Antico Testamento “vir mitissimus”[114], ed è proposto come esempio di mansuetudine, specialmente per la pazienza con cui sa intercedere presso Dio per il popolo, che pure l’ha fatto oggetto di ingiurie:
“Con quali miti parole (miti sermone) si rivolgeva al popolo dopo le offese, lo consolava nelle fatiche, lo placava nei suoi responsi, lo sosteneva con le sue opere! E, pur parlando francamente (constanter) con Dio, di solito si rivolgeva agli uomini con espressioni umili e amabili (umili et grata appellatione)”[115].
Nel passo appena citato, si segnala una virtù particolare di Mosè, che è capacità di rivolgersi a Dio constanter. Si tratta di una franchezza propria di chi sa di potersi fidare della misericordia di Dio, e pertanto è in grado di parlargli con la schiettezza e sincerità di un figlio; questa chiarezza va unita inseparabilmente all’umiltà di chi conosce l’infinita superiorità di Dio. Franchezza e umiltà sono la radice della paziente amabilità con la quale Mosè sa insegnare al popolo[116]. Si presenta qui la classica interrelazione tra affabilità e veracità, già vista in Platone e Aristotele, che sant’Ambrogio ripropone in modo puntuale:
“L’affabilità del discorso vale moltissimo ad acquistare simpatia. Ma la vogliamo sincera e misurata, senza alcuna adulazione che offenda la semplicità e la schiettezza del parlare, perché dobbiamo essere di modello agli altri per castigatezza e lealtà non solo nelle nostre azioni, ma anche nei nostri discorsi. Siamo quali vogliamo essere stimati, e riveliamo i nostri sentimenti come li abbiamo in realtà”[117].
Descrivendo l’adulazione, sant’Ambrogio cita più volte un versetto del Libro dei Proverbi: “Le ferite degli amici sono più sopportabili che i baci degli adulatori”[118]. Si sottolinea qui l’importanza di scegliere oculatamente i consiglieri, cercando di fuggire con ogni cura dagli adulatori; è preferibile chiedere consiglio a un uomo giusto, cioè virtuoso, piuttosto che a uno solo prudente, la cui ingegnosità rischia di essere di minore utilità: “Se poi si uniscono l’una e l’altra dote, si avranno consigli veramente utili, da tutti ammirati per la loro sapienza e amati per la loro giustizia”[119]. E’ la giustizia, non la sapienza, a rendere amabili. Va forse chiarito che con “giustizia” si intende in questo caso sia la virtù cardinale, sia – forse più precisamente – la virtù dell’uomo fedele a Dio, con tutta la densità che il linguaggio biblico conferisce alla qualità di “giusto”. Come mostrano gli esempi biblici di Giuseppe, Salomone e Daniele, nel consigliere si cerca soprattutto la virtù:
“Per chi cerca consiglio, contano moltissimo la probità della vita, l’eccellenza della virtù, l’esercizio della benevolenza (benivolentiae usus), la prontezza nel darlo con affabilità (facilitatis gratia). Chi infatti cercherebbe una sorgente nel fango? (…). D’altra parte, chi ricorrerebbe a uno preparatissimo, sì, al compito di consigliere, ma tuttavia difficile a lasciarsi avvicinare, che agisca cioè come chi vieta l’accesso a una sorgente?”[120].
E l’essere accessibile è una delle virtù più importanti del consigliere, perché in sua assenza difficilmente sarà possibile aiutare in modo efficace il prossimo.
Il tema classico dell’amicizia viene ripreso da sant’Ambrogio a conclusione dell’intero trattato, ritornando nuovamente sul vizio dell’adulazione. Considerando l’insistenza con la quale il Vescovo di Milano discute la questione morale della ricchezza, della generosità e dell’avarizia, non stupirà vedere il particolare punto di vista dal quale si guarda al tema:
“Le amicizie tra i poveri per lo più sono migliori di quelle fra i ricchi; e spesso i ricchi sono senza amici, mentre i poveri ne hanno molti. Non c’è infatti vera amicizia dove c’è ingannevole adulazione. I più cercano di compiacere i ricchi con le adulazioni; con il povero nessuno finge. Tutto ciò che si dà al povero è sincero, l’amicizia che si ha per lui è senza invidia”[121].
Molti critici affermano che il De Officiis non sia un’opera particolarmente riuscita dal punto di vista dello stile e della struttura, specialmente a motivo delle frequenti ripetizioni, nonché di una certa forzatura del senso delle citazioni classiche e bibliche, che sono riportate spesso per sottolineare a priori la superiorità della Rivelazione[122].
Appare comunque interessante che, a partire da un impianto ciceroniano, le tematiche della giustizia, dell’amicizia, dell’affabilità e della veracità siano messe in rapporto con la carità, che ne è il fondamento. L’insistenza di sant’Ambrogio sulla generosità e sulla liberalità, necessarie per vivere la giustizia, avranno un’importante influenza sulla morale cristiana, specialmente nella sottolineatura della centralità della rinuncia e del dono di sé, unico cammino per raggiungere la virtù e la felicità.
Le linee di fondo che, secondo i Padri, caratterizzano la mitezza sono adeguate anche a vari aspetti dell’affabilità, se si considera questa virtù soprattutto nella sua funzione di moderatrice della litigiosità[123]. Sul piano morale, la mitezza consiste nel dominio degli istinti di aggressività, il cui controllo garantisce una serena padronanza di sé, cioè l’equilibrio necessario sia per la vita interiore sia per la vita di relazione. Come virtù cristiana, la mitezza è invece presentata come una delle componenti della carità fraterna, richiesta dal comandamento evangelico, e anche in questo aspetto essa presenta punti in comune con l’affabilità.
San Giovanni Crisostomo si sofferma su questo aspetto nelle Omelie sugli Atti degli Apostoli, in particolare a partire dalla figura di santo Stefano. Il protomartire è infatti presentato come modello di mitezza davanti alle ingiurie e agli insulti, e viene sottolineato come per dominare la reazione di collera è necessaria una grande fortezza[124]. Il Crisostomo collega poi la mitezza (epieicheia) con un’altra importante virtù, la franchezza (parresia), intesa come sincerità o libertà nel parlare:
“Se tu ti arrabbi, non è frutto della franchezza, ma proviene dalla passione, e di questo sarai giudicato. Senza mitezza non si dà una vera franchezza nel parlare (…). Il coraggio nel parlare è un bene, ma parlare con ira è un errore. Bisogna quindi essere liberi da ogni animosità, se vogliamo esprimerci con franchezza. Perché, anche se dicessi cose giuste, se sono frutto dell’ira, tutto è perduto, perfino la tua franchezza, i tuoi saggi consigli, qualunque cosa tu faccia. Guardate quest’uomo (Stefano), che parla senza collera, senza insolenza, e ricorda loro le antiche profezie. Che non sia mosso da alcun risentimento prova il fatto che prega per chi lo ferisce, mentre cade sotto i colpi: “Non imputare loro questa colpa”. Non è il linguaggio della collera, ma della compassione. Da qui le parole: “Videro il suo aspetto come quello di un angelo”. Restiamo liberi dall’ira. Lo Spirito Santo non abita laddove regna la collera”[125].
Senza la mitezza, il parlare franco e sincero non avrebbe quell’efficacia che lo rende convincente. Viceversa, la mitezza (in latino, mansuetudo e in greco epieicheia) rende attraente il cristiano, perché in lui diventa visibile la presenza dello Spirito Santo; e questo è essenziale nell’azione apostolica.
La virtù della parresia, come si ricorderà, è inserita da Platone accanto alla benevolenza tra le virtù del saggio, che deve essere capace di dire la verità all’amico, per fargli del bene[126]. In greco classico, il termine indicava la libertà di prendere la parola nell’assemblea del popolo, cosa che era un privilegio dei cittadini liberi. Nel vocabolario cristiano, essa indica la confidenza nei rapporti con Dio, che deriva nell’uomo dalla sua condizione di figlio, ed è virtù necessaria per chiamare Dio “Padre”[127]. San Giovanni Crisostomo utilizza frequentemente questo termine, in modo non del tutto univoco. Nel commento alla lettera ai Galati, per esempio, si afferma che san Paolo affronta con franchezza i suoi avversari, senza timore di contestarli apertamente e con decisione, e si individua una progressiva manifestazione di questa virtù paolina lungo la lettera, conformemente al sapiente ed accorto metodo pedagogico e psicologico con il quale l’Apostolo sa rivolgersi ai propri interlocutori[128]. In realtà, la confidenza e sicurezza con la quale ogni apostolo è chiamato a parlare del Vangelo non è altro che un riflesso del modo con il quale Cristo parla apertamente, annunciando il regno di Dio[129].
Tuttavia, come si è già avuto modo di segnalare, due virtù per le quali il Messia si pone come modello sono la mitezza e l’umiltà di cuore, che condensano e caratterizzando l’atteggiamento di Cristo come Redentore dell’umanità[130]. In un passo delle Catechesi Battesimali, proprio l’invito di Gesù a imparare la mitezza e l’umiltà viene messo in rapporto con il brano della lettera ai Galati che elenca i frutti dello Spirito Santo[131]:
“Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre anime(…). Chi imita la mitezza del Signore non si adirerà, non si leverà contro il prossimo (…). Chi si sottopose al giogo di Cristo ed imparò ad essere mite ed umile di cuore mostrerà dovunque ogni virtù e seguirà le orme del Signore (…). E bisogna fare molta attenzione non solo agli occhi, ma anche alla lingua. Infatti, molti caddero per mezzo della lingua (Sir 28, 18). Bisogna frenare pure le altre passioni che si presentano e porre in pace la mente, bandire la collera, l’ira, il rancore, l’ostilità, l’invidia, i desideri perversi, ogni licenza, tutte le opere della carne, che sono – [san Paolo] dice – adulterio, fornicazione, impurità, licenza, idolatria, sortilegio, ostilità, discordia, gelosie, ubriachezze, bagordi. Bisogna dunque eliminare tutto ciò e sforzarsi di possedere il dono dello Spirito: l’amore, la gioia, la pace, la magnanimità, l’amabilità (krestoteta), la bontà, la mitezza, la padronanza di sé”[132].
Viene qui proposta una connessione tra la mitezza, intesa come identificazione con Cristo nella sua disposizione fondamentale al sacrificio di sé stesso, e il “dono” dello Spirito Santo nell’anima di chi imita il Redentore; esso consiste nel corrispettivo positivo della lotta del cristiano contro le passioni disordinate, frutto del peccato. L’aspetto che sembra essere di maggior interesse è il rapporto tra la mitezza e la temperanza (il dominio di sé), e quello di entrambe con la concordia tra gli uomini; a seminare la discordia contribuisce il vizio della litigiosità, e moderare l’ira è un cammino per combattere questo difetto. Trovare riferimenti a queste virtù in un testo che parla degli effetti del Battesimo nel neofita è riprova del fatto che esse sono considerate un riflesso visibile della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nell’anima del cristiano.
Un brano di un’altra delle Catechesi Battesimali del Crisostomo mette in luce come la grazia doni bellezza a tutta la persona, e sottolinea la necessaria coerenza tra interiorità e comportamento esteriore del cristiano:
“E ciascuna delle nostre azioni possegga molto decoro. Dice infatti: L’abbigliamento di un uomo, il riso dei suoi denti e l’andatura del suo piede rivelano ciò che egli è[133]. Chiara immagine della condizione dell’anima può essere l’attitudine esteriore ed il movimento delle membra rivela in modo particolare la bellezza di quella. E se andremo in piazza, sia tale il nostro incedere e tale serenità e compostezza possegga da rivolgere alla nostra vista coloro che incontriamo, e l’occhio non si smarrisca né i piedi camminino disordinatamente e la lingua proferisca le parole con tranquillità e dolcezza (epieicheia): tutto insomma l’atteggiamento esteriore indichi la bellezza interiore dell’anima e la nostra condotta sia ormai come straniera e trasformata, poiché nuove e straniere sono ormai le cose da noi intraprese (…). Perciò, tutto quanto ci è stato donato è spirituale: infatti il nostro vestito è spirituale, il nostra cibo è spirituale e la nostra bevanda è spirituale; di conseguenza, dovranno essere spirituali anche le nostre opere e tutte le nostre azioni. Queste sono il frutto dello Spirito Santo, come dice anche Paolo: il frutto dello Spirito è l’amore, la gioia, la pace, la magnanimità, la benignità(krestotes), la bontà, la fedeltà, la mitezza, la temperanza”[134].
Come si vede, in un primo momento viene messa in risalto la virtù della modestia, intesa come decoro nei modi e nel comportamento esterno; e strettamente collegate ad essa sono latranquillità e dolcezza con le quali si invita il cristiano a proferire ogni parola. Il dono dello Spirito, ottenuto nel battesimo, rende quindi spirituale ogni azione del cristiano, e perfino il suo “vestito”, cioè l’aspetto visibile, il modo di presentarsi e di parlare. Queste qualità sono viste come gli atti dell’anima rinnovata dalla grazia, e vengono chiamate frutti dello Spirito Santo.
Dei frutti della grazia san Giovanni Crisostomo parla anche in modo esplicito nel Commento al Vangelo di san Matteo, offrendo ulteriori spunti in sintonia con i testi appena citati, con una sottolineatura particolare sulla necessità di una vita coerente con la grazia ricevuta attraverso il battesimo:
“Sono numerosi coloro che, dopo aver ricevuto il battesimo, vivono in modo più disordinato di coloro che non lo hanno ancora ricevuto e non fanno perciò vedere in nessun modo che sono cristiani. Non è possibile oggi riconoscere lì per lì, nelle assemblee pubbliche e anche all’interno della chiesa, i fedeli da coloro che non lo sono (…). Un fedele deve far vedere chi è non con la sola partecipazione ai santi misteri, ma per il suo comportamento rinnovato, per la sua vita nuova. Bisogna che un cristiano, come dice il Vangelo, sia la luce e il sale del mondo (…). Il fedele deve brillare non solo per quei doni che ha ricevuto da Dio, ma anche per quelli che egli stesso offre a lui; deve essere riconosciuto ovunque per il suo modo di camminare, di guardare, per tutto il suo comportamento esteriore e per la sua stessa voce”[135].
Il Crisostomo passa quindi a descrivere i difetti visibili nel comportamento esteriore del cristiano che non vive in coerenza con il dono battesimale, e ne stigmatizza le “conversazioni in piazza”, le “risa smodate”, gli “atteggiamenti rilassati”, biasimando inoltre il fatto che egli sia solito circondarsi di “parassiti e adulatori”. Quest’ultimo accenno all’adulazione, in un contesto di difetti contrari alle virtù sociali, non è privo di interesse.
All’insegna della delicatezza e della finezza sono i consigli dati dal Crisostomo ai genitori, per la formazione del carattere dei figli. Nel Trattato sulla vanità e sull’educazione dei figli, san Giovanni insiste a più riprese sul fatto che, affinché i giovani imparino a trattare con rispetto il prossimo, è necessario che essi siano educati in un clima di delicatezza e attenzione personalizzata[136]. Il seguente passo sottolinea specialmente il rapporto tra il dominio di sé e le virtù della convivenza famigliare e sociale, rivolgendosi al genitore, perché con il suo comportamento serva di esempio al giovane:
“Non chieda a quei di casa nulla di quanto può chiedere un uomo libero, ma si faccia da solo i maggiori servizi (…). E se avrà bisogno di lavarsi i piedi, non faccia questo servizio uno schiavo, ma se li lavi da sé: renda così l’uomo libero bene accetto e grandemente amabile a quei di casa. E nessuno gli porti il mantello, né attenda in bagno l’aiuto da parte di un altro, ma faccia ogni cosa da sé: ciò lo renderà vigoroso, modesto e affabile”[137].
Lo spunto originale è il rapporto tra la sobrietà – che si dimostra evitando di farsi servire per mera comodità, e manifestando quindi rispetto nei confronti del lavoro altrui, perfino degli schiavi – e la fortezza. Poco prima, il Crisostomo aveva menzionato l’importanza del dominio de sé, sottolineando la necessità della mitezza; a questo si aggiunge l’austerità e semplicità di costumi, che porta con sé come frutto l’affabilità. Non stupisce trovare questi discorsi in un trattato sull’educazione, dal momento che le virtù della convivenza sociale e le buone maniere sono da sempre oggetto prediletto della pedagogia.
L’undicesima Omelia sull’Epistola ai Colossesi tocca il tema dell’adulazione, insieme a quello della necessità di ammonire chi sbaglia; e nel contempo offre spunti di notevole sapienza e vivacità a proposito dell’atteggiamento che l’apostolo è chiamato a tenere per attirare i pagani alla verità. In particolare, interessa esaminare un brano che chiosa Col 4, 6: “Sermo vester semper in gratia, sale conditus, ut sciatis quomodo oporteat vos unicuique respondere”[138]:
“Dice che [il parlare] non sia pieno di ipocrisia: ciò non è cortesia, non è esser condito con sale. Se è necessario ossequiare, senza pericolo, non ricusarlo; se si presenta l’occasione di una conversazione tranquilla, non considerarla adulazione. Compi ogni atto necessario di deferenza, senza danno però per lo spirito religioso. Non vedi come Daniele si mostra ossequioso verso un uomo empio (…). Sii cortese, non inopportuno; ma neppure debole: abbi serietà insieme con piacevolezza. Chi infatti è severo oltre ogni misura, più che giovare, reca molestia. E chi è esageratamente accondiscendente reca più danno che giovamento”[139].
Il tema di fondo è il dialogo apostolico, per l’efficacia del quale san Giovanni Crisostomo raccomanda di rifuggire l’ipocrisia, il che non impedisce – qualora sia necessario e conveniente – di trattare con il dovuto riguardo chi lo merita. Si tratta infatti di cercare la misura in tutto, vivendo un giusto mezzo tra l’eccessiva severità e una giovialità sconsiderata, ma senza mentire od omettere di dire la verità quando è necessario. E’ quanto si afferma poco oltre, nello stesso brano a commento della lettera ai Colossesi, dove si esamina quando e come sia conveniente “rispondere a ciascuno”:
“Per esempio, se non c’è motivo, non dire che il pagano è empio e non oltraggiarlo, ma se qualcuno ti interroga sulle sue credenze, rispondi che sono empie e perverse; se nessuno poi interroga né ti costringe a parlare, non è opportuno crearsi alla leggera delle odiosità (…). Se stai catechizzando qualcuno, parlagli dell’argomento; altrimenti taci. Se la tua parola è condita con sale, anche se cade su un’anima che si lascia facilmente trasportare, ne comprime la frivolezza; e anche se cade su un’anima aspra, ne leviga la durezza (…). Così, un pagano ti avvicina e ti diventa amico? Non parlare con lui dell’argomento [cioè della fede cristiana], fino a quando non ti è veramente amico, e quando lo sarà, a poco a poco”[140].
Il discorso circa le buone maniere, la cortesia e la dolcezza nel parlare si allarga, perché queste virtù diventano strumenti decisivi per l’apostolo che vuole avvicinare a Dio il pagano. Per portare la verità a qualcuno è fondamentale sapere quando parlare e quando tacere, ed evitare ove sia possibile il contrasto e il litigio. E’ invece necessaria un’amicizia vera, che sa attendere e andare per gradi, è fedele e costante; l’intero discorso si colloca dunque nel quadro della concezione classica dell’amicizia, che viene interpretata come luogo naturale dell’apostolato cristiano, perché entrambi sono manifestazione e frutto della carità. A una persona che vive la carità, ci si rivolge con facilità, perché ci si sente invitati a parlagli e ad ascoltarla. A questa conclusione san Giovanni Crisostomo giunge commentando un passo della lettera ai Corinzi:
“Se tu operassi miracoli, se risuscitassi i morti, se facessi qualsiasi altra cosa, mai i pagani ti ammirerebbero come vendendoti mite, dolce e soave nelle tue maniere. E non è questo un piccolo successo: molti alla fine, infatti, verranno distolti dal male. Nulla è tanto capace di attrarre come l’amore: per quelli ti invidieranno – per i miracoli, dico – ma per questo ti ammireranno e ti ameranno; amandoti abbracceranno, progredendo, la verità cristiana. E se non si fa subito fedele, non meravigliarti, non preoccuparti, non volere tutto in una volta, ma lascia che egli per ora lodi ed ami, e procederà poi sulla via della fede”[141].
E’ noto di san Girolamo il carattere forte, che con una certa frequenza si manifesta in giudizi taglienti e categorici. Non sembra inutile citare qui, a mo’ di aneddoto, il parere che dello stile di sant’Ambrogio si legge nel De viris illustribus, dove lo Stridonense afferma di astenersi dal giudizio, “perché non mi venga rimproverato nessuno degli estremi, né l’adulazione né la sincerità”[142]. Giudizio emblematico come esempio di stile pungente e anche per cogliere l’opposizione che Girolamo afferma esistere tra sincerità e adulazione. Tale relazione si coglie bene in un altro passo:
“L’adulazione è sempre insidiosa, astuta, suadente. L’adulatore è definito bene dai filosofi come un dolce nemico. La verità è amara, ha il volto accigliato e triste e offende chi corregge. Perciò l’Apostolo dice sono diventato vostro nemico, dicendovi la verità(Gal IV, 16). E il Comico dice: l’adulazione genera amici, la verità odio”[143].
San Girolamo stigmatizza con veemenza il vizio dell’adulazione, e nel brano appena citato afferma l’esistenza di una tensione tra la sincerità e le forme dolci e affabili, che sarebbero virtù pressoché incompatibili. La sincerità, in altre parole, non può essere amabile. Non è casuale che san Tommaso scelga proprio di citare san Girolamo – senz’altro non proclive a questo vizio – come auctoritas nella questione della Summa che tratta dell’adulazione[144].
Per quanto riguarda il vizio per difetto, la litigiosità, è interessante accennare all’interpretazione data dallo Stridonense all’episodio del confronto tra Pietro e Paolo ad Antiochia, a proposito dei giudaizzanti[145]. Proprio rifiutando la possibilità che si potesse dare un conflitto tra i due apostoli, san Girolamo interpreta la contesa come una sorta di “simulazione diplomatica”, combinata insieme dai due apostoli per vincere gli oppositori. Questa interpretazione risale forse ad Origene (ed è presente anche in san Giovanni Crisostomo). Lo Stridonense esalta la schiettezza e franchezza di Pietro, cioè la sua parresia, sostenendo che essa non potesse esser venuta meno nell’episodio di Antiochia; san Pietro e san Paolo si erano messi d’accordo per essere l’uno l’apostolo dei circoncisi e l’altro l’apostolo dei gentili; san Pietro si sarebbe poi lasciato riprendere pubblicamente da san Paolo ad Antiochia soltanto per convincere meglio la comunità dei gentili; entrambi rimanevano invece coerenti con quanto concordato[146]. Sant’Agostino, come si vedrà meglio più avanti, respinse l’esegesi di san Girolamo, sostenendo che non si potessero ammettere bugie nella Sacra Scrittura, che ne porrebbero in dubbio la veridicità. Ne nacque una polemica, dai toni anche sarcastici, specialmente da parte dello Stridonense[147]. Per il nostro tema non è privo di interesse notare come la disputa – che verrebbe quasi da definire essa stessa litigio – ruoti attorno al rapporto tra franchezza, verità e sincerità.
San Girolamo definisce la virtù dell’affabilità in modo preciso nel Commento alla lettera ai Galati, e per farlo ricorre alla parola benignitas; si tratta di una riflessione rilevante anche dal punto di vista lessicale, data la padronanza che l’autore possiede della lingua greca:
“La benignità, o dolcezza – che presso i greci è denominata krestotes – è una virtù soave, delicata, tranquilla, che favorisce la convivenza dei buoni e invita alla familiarità, di parlare affabile e mite contegno. Infatti gli Stoici la definiscono così: la benignità è la virtù che porta a fare il bene di buon grado. La bontà non è molto diversa dalla benignità, perché anch’essa vuole essere gradevole; ma si distingue da essa perché la bontà può essere più triste e dai modi severi e duri; la bontà è sempre pronta a fare il bene e a prestare un favore, ma senza rendere amabile la convivenza e invitare il prossimo alla dolcezza. I seguaci di Zenone così la definiscono: la bontà è la virtù che giova, vale a dire la virtù dalla quale nasce l’utilità, oppure la virtù in quanto tale, o l’amore che è fonte di ogni cosa utile”[148].
L’interesse del testo appena citato è dato dal fatto che esso cerca di sintetizzare la ricchezza semantica del termine greco krestotes, benignità, mettendolo in rapporto con i concetti di utilità e di bontà; è evidente il riferimento alla riflessione ciceroniana sul rapporto tra l’utile e la virtù[149]. Si tratta forse della definizione più concisa e completa della virtù dell’affabilità fin qui trovata; conviene sottolineare ancora una volta che i termini scelti per indicare questa virtù non sono rigidamente determinati, e di fatto non lo saranno fino a quando san Tommaso sceglierà di chiamarla affabilitas seu amicitia[150].
Si afferma invece con chiarezza il rapporto tra la virtù sociale dell’affabilità e i frutti dello Spirito Santo, così come sono presentati nel capitolo V della lettera ai Galati; il primo tra questi frutti è la carità, “senza la quale le altre virtù non possono essere considerate tali e dalla quale nasce ogni cosa buona”[151]. La riflessione viene ulteriormente approfondita commentando un passo della lettera agli Efesini: “Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo”[152]. Dice il Commento:
“Sulla dolcezza, contraria all’amarezza, si è già parlato; l’Apostolo la chiama quikrestoteta, che significa soavità più che benignità; e ci invita ad essere misericordiosi e dolci, superando la collera, l’ira, i toni alterati, l’irritazione, gli insulti e una certa serietà nel volto, affinché nessuno abbia timore di rivolgersi a noi e anzi abbiamo un aspetto che invita il prossimo all’amicizia con noi, alla quale siamo disposti soprattutto dalla misericordia”[153].
L’essere accessibili, che non è altro che una manifestazione dell’affabilità, si fonda quindi sulla capacità di perdonare, che a sua volta – si dirà subito dopo – dipende dalla consapevolezza della misericordia divina nei confronti di ciascuno di noi. Al nostro atteggiamento misericordioso, Dio risponde donandoci in Cristo le virtù; “la sapienza, la veracità, la giustizia, la mitezza e ogni altra virtù dipende infatti da Cristo”[154], che ce le ottiene per la sua misericordia. Alla benignità e alla dolcezza dei modi viene quindi dato anche un senso di umanità e generosità, caratteristico della capacità di perdonare. Non è un caso che il brano termini con un riferimento alla preghiera del Padre nostro, che insegna che soltanto perdonando il prossimo ogni cristiano diventa capace di meritare il perdono di Dio. Sono riflessioni che si avrà modo di approfondire a proposito di sant’Agostino.
Un brano tratto da una lettera che l’epistolario di san Girolamo attribuisce a Paola ed Eustochio condensa in modo efficace un ulteriore aspetto dell’affabilità, che si è già riscontrato in san Giovanni Crisostomo: la sua efficacia per l’apostolato. Le due donne – madre e figlia –, che furono discepole dello Stridonense prima a Roma e poi a Gerusalemme, scrivono a un’altra nobildonna romana, Marcella, loro condiscepola, che viene invitata calorosamente a lasciare Roma e a raggiungere le amiche a Gerusalemme, dove esse si trovano già (san Girolamo ha con ogni probabilità collaborato alla stesura della lettera):
“Facciamo pertanto l’unica cosa che gli assenti sono in grado di fare: ti rivolgiamo le nostre piangenti suppliche, e dimostriamo la nostra nostalgia non con il semplice pianto, ma con veri e propri singhiozzi, affinché tu ci restituisca la nostra cara Marcella, e non permetta che la mite, la dolce, più dolce del miele e della stessa dolcezza, sia aspra e aggrotti la fronte con coloro che conquistò con la sua affabilità, perché vivessero una vita simile alla sua”[155].
In un clima di affettuosa familiarità è ben visibile il ruolo che viene attribuito all’affabilità, come mezzo adatto all’apostolato, per attrarre il prossimo alla sequela di Cristo.
“Qui incontrai il vescovo Ambrogio, noto a tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore (…). Quell’uomo di Dio mi accolse come un padre e gradì il mio pellegrinaggio proprio come un vescovo. Io pure presi subito ad amarlo, dapprima però non certo come maestro di verità, perché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la tua Chiesa; bensì come persona che mi mostrava della benevolenza (…). La soavità della sua parola mi incantava. Era più dotta, ma meno gioviale e carezzevole di quella di Fausto quanto alla forma; quanto alla sostanza però, nessun paragone era possibile”[156].
Con queste parole sant’Agostino descrive il suo incontro con il Vescovo di Milano, che l’avrebbe battezzato nel corso della Veglia Pasquale dell’anno 387. Si riscontra una notevole consonanza di spirito tra questo passo delle Confessioni e il brano delle Omelie sulla prima lettera ai Corinzi di san Giovanni Crisostomo che si è avuto modo di citare in precedenza[157]. Sant’Agostino racconta qui come si avvicinò e cominciò ad amare sant’Ambrogio non tanto cercando la verità, quanto piuttosto per la forza e l’attrazione della benignità che il vescovo gli dimostrava. Non è neppure sufficiente la suavitas sermonis, che potrebbe essere anche solo frutto di eloquenza e retorica. L’amore nasce quando il discepolo si accorge che il maestro è benignus nei suoi confronti, e da questo deriva prima l’interesse e poi l’accettazione della verità. Per l’apostolato, quindi, né l’erudizione né l’abilità nell’intrattenere sono sufficienti. E’ necessaria la capacità di attrarre a sé, e quindi alla verità, mostrando benevolenza.
La parola affabilitas compare poche volte negli scritti di sant’Agostino[158]. Una di queste si trova in una lettera a Ceciliano, all’interno di un elenco di virtù di un defunto:
“Quale onestà di costumi possedeva! Fedeltà nell’amicizia, passione nello studio, sincerità nella religione, purezza nella vita coniugale, moderazione nei giudizi; pazienza con i nemici, affabilità con gli amici, umiltà verso i santi, carità verso tutti”[159].
L’ambito è quello delle virtù cristiane, tra le quali spiccano alcune qualità necessarie nella vita sociale e nei rapporti con il prossimo, come l’amicizia, la pazienza, l’affabilità; l’elenco culmina nella caritas erga omnes, caratteristica del cristiano, che è pure la chiave di volta di un altro passo agostiniano nel quale compare la parola affabilem. Si tratta del commento al Salmo 103:
“Non avrete scusa davanti al giudizio di Dio se non vi sarete esercitati nelle buone opere, e se non avrete conseguito frutti adeguati da quanto avete udito, come dalla pioggia. Frutto adeguato sono le opere buone; frutto adeguato è l’amore sincero, non solo per il fratello, ma anche per il nemico. Non disprezzare chi ti supplica, e non disprezzare colui al quale non puoi dare ciò che ti chiede: se puoi dare, da’; se non puoi, mostrati affabile (affabilem te praesta). Dio rende efficace la buona volontà interiore, dove la capacità non riesce ad arrivare. Nessuno dica: non posseggo niente. La carità non si chiede al borsellino, poiché qualunque cosa diciamo, o abbiamo detto, o avremmo potuto dire, noi, o dietro di noi o qualcuno davanti a noi, non ha altro fine che la carità, perché la carità è il fine del precetto” [160].
Viene sottolineato che la carità si deve manifestare in atti e atteggiamenti concreti e visibili, nella misura delle possibilità di ciascuno: se si può donare qualcosa, si doni; se non si può, si manifesti la carità almeno attraverso l’affabilità (appare evidente un’implicita citazione del libro del Siracide: “congregationi pauperum affabilem te facito”[161]). Questa insistenza sulla carità come anima di ogni virtù mostra cardini della morale e dell’intero sistema teologico agostiniano[162]. Per sant’Agostino, le virtù essenziali non sono più le quattro virtù cardinali della morale classica, specialmente stoica, ma piuttosto le virtù teologali, che sono inseparabili l’una dall’altra. La fede è inizio di ogni giustizia ed è un dono di Dio, così come lo è la speranza; la carità è l’effusione dello Spirito Santo nel cuore dei cristiani, che dà vita ed efficacia soprannaturale ad ogni azione dei figli di Dio. Tutte le virtù sono per sant’Agostino frutto della presenza di Cristo e dell’azione dello Spirito Santo dentro ciascuno di noi:
“E potrei mai nominarle tutte? Esse cono come un esercito di un generale che ha il suo comando dentro la tua mente. Come il generale, per mezzo del suo esercito, attua ciò che più gli piace, così il Signore nostro Gesù Cristo, incominciando ad abitare nell’intimo dell’uomo, cioè nella nostra mente per mezzo della fede, usa di queste virtù come di suoi ministri. E per mezzo di queste virtù, che non possono essere viste con gli occhi, e che tuttavia, se nominate, vengono lodate (…), per mezzo di queste virtù vengono mosse le membra in modo visibile: i piedi per camminare; ma dove? dove li possa muovere la buona volontà, che milita sotto un buon generale. Le mani per operare; ma che cosa? ciò che la carità avrà comandato, interiormente suscitata dallo Spirito Santo”[163].
Per il Vescovo di Ippona, la carità si esprime dunque nelle opere buone, ma queste da sole non bastano per renderla attuale, poiché esse si potrebbero realizzare anche solo osservando la Legge. Perché le azioni virtuose siano opera della carità, è necessario che siano frutto dello Spirito Santo: “Infatti, nessun frutto è buono se non nasce dalla radice della carità”[164]. La carità si trova pertanto alla base dei frutti che lo Spirito produce nel cuore del credente, ed è per questo – dice sant’Agostino –che essa è collocata da san Paolo al primo posto nella lista della lettera ai Galati[165]. Sulla carità si fondano gli altri frutti, la gioia, la pace, la longanimità, la benignità, la bontà, la mitezza, il dominio di sé:
“E in verità, ci può essere gioia ben ordinata, se non si ama il bene di cui si gode? Come si può essere veramente in pace, se non con chi sinceramente si ama? Chi può essere longanime, rimanendo perseverante nel bene, se non chi ama fervidamente? Come può dirsi benigno uno che non ama colui che soccorre? Chi è buono se non chi lo diventa amando? Chi può essere credente in modo salutare, se non per qualle fede che opera mediante la carità? Che utilità essere mansueto, se la mansuetudine non è ispirata all’amore?”[166].
Il commento relativo alla centralità del ruolo dello Spirito nella lettera ai Galati offre la possibilità di approfondire ulteriormente uno degli aspetti più originali della morale agostiniana, che è il rapporto che viene istituito tra i doni dello Spirito Santo e le beatitudini presentate da Gesù Cristo nel Discorso della Montagna.
Nel commentare Gal 5, 22-23, sant’Agostino esamina la corrispondenza tra le opere della carne e i frutti dello Spirito Santo; tuttavia, non si può affermare in modo categorico che nell’elenco dei frutti sant’Agostino ponga l’affabilità. A conclusione della lista paolina, il Vescovo di Ippona commenta:
“Perché finalmente si possano trattare con la giusta moderazione gli altri, fra cui viviamo, combattono la pazienza per sopportarli, la dolcezza per curarli, la bontà per perdonarli. Quanto al resto, contro le eresie lotta la fede, contro l’odio la mansuetudine, contro le ubriachezze e i bagordi, la continenza”[167].
Come si vede, sia la benignitas ad curandum sia la bonitas ad ignoscendum posseggono sfumature che le avvicinano allo spirito di servizio e alla misericordia, più che all’affabilità; nel contempo, ci si muove sempre nell’ambito delle diverse opere nelle quali si manifesta in modo visibile la carità dei figli di Dio, che mostrano così lo Spirito Santo che abita in loro.
Come si ricorderà, la mitezza è un concetto assai ricco di significati nella Sacra Scrittura e nella spiritualità cristiana: essa ha rapporti stretti con l’affabilità, e può a volte venire usata come un suo sinonimo[168]. Nel commento di sant’Agostino al Discorso del Signore sulla Montagna[169], la seconda delle beatitudini pronunciate dal Signore, “Beati i miti, perché erediteranno la terra”[170], viene messa in rapporto con il penultimo dei doni dello Spirito elencati nel capitolo 11 di Isaia (nella versione dei LXX), cioè con la pietas. La pietas è intesa innanzitutto come l’atteggiamento che il cristiano è chiamato a tenere di fronte alla Scrittura, rifuggendo ostinate discussioni o puntigli che sono in realtà dimostrazione di mancanza di umiltà. Il pius viene descritto anche come colui che riconosce e compie i propri doveri verso Dio, verso i parenti e verso la patria. E il mite è chi resiste di fronte alle avversità, e cerca di vincere il male con il bene; il violento e il litigioso pretendono di ottenere i beni nel tempo, mentre il mite agisce per il regno dei cieli[171]. E’ lecito adirarsi contro qualche difetto presente in un nostro fratello, per correggerlo, ma l’ira non deve essere duratura, perché si trasformerebbe in odio, che si opporrebbe direttamente alla caritas, all’amore fraterno che è il cuore della nuova giustizia:
“Se pietà è quello con cui sono beati i miti, perché essi avranno in eredità la vita eterna, chiediamo che venga il regno di Dio tanto in noi stessi, affinché diventiamo miti e non resistiamo a lui, come nello splendore della venuta del Signore dal cielo alla terra, di cui noi godremo e conseguiremo la gloria (…). Nel Signore infatti, dice il profeta, si glorierà la mia anima; ascoltino i miti e si rallegrino”[172].
Alla beatitudine dei miti e al dono di pietà corrisponde per sant’Agostino anche un’invocazione specifica del Padre nostro: Adveniat regnum tuum. E’ il dono di pietà che porta a riconoscere in Dio un Padre benigno, e a trattare pertanto tutti gli altri uomini come fratelli, anticipando in terra la venuta del regno. Il regno di giustizia per la venuta del quale si prega Dio, infatti, non è solo un regno terreno: la giustizia è intesa nel senso biblico, più vicino al concetto di santità che all’omonima virtù cardinale; è essa stessa il frutto dell’azione dello Spirito Santo nell’anima di ogni persona e di conseguenza nella vita sociale. La venuta del regno avverrà in modo definitivo soltanto nella vita eterna.
La corrispondenza tra doni, beatitudini e invocazioni del Padre nostro è per sant’Agostino la conferma dell’interconnessione tra la vita morale, la spiritualità e la vita di preghiera del cristiano. Come si avrà modo di vedere – ed questo il motivo per cui si è indugiato su questo tema –, san Tommaso introdurrà questo aspetto della concezione agostiniana della morale nella struttura della Summa: “fonderà la morale sulla connessione tra le virtù, i doni e le beatitudini, aggiungendovi i frutti dello Spirito Santo, secondo quanto dice la lettera ai Galati”[173]. Il Commento agostiniano alla lettera ai Galati offre lo spunto per un ulteriore approfondimento, che si ricollega a quanto è stato detto in precedenza intorno all’incidente di Antiochia e che verrà esaminato nel paragrafo seguente.
Nel secondo capitolo della lettera ai Galati (vv. 11-14) viene narrato l’episodio avvenuto ad Antiochia, quando san Paolo riprese pubblicamente san Pietro che, per non urtare la sensibilità dei cristiani di origine giudaica, non divideva la mensa con quelli che provenivano dal paganesimo. Come abbiamo visto, condividendo un’esegesi piuttosto affermata tra i Padri, san Girolamo sosteneva che l’incidente fosse in realtà un officiosum mendacium, che servì ai due apostoli per conciliare il dissenso tra due fazioni di cristiani presenti all’interno della comunità. Sant’Agostino contestò con vigore questa posizione, che in sostanza tollerava la possibilità, in alcune circostanze, di mentire; una volta che si ammette l’esistenza di una menzogna nella Sacra Scrittura, non se ne può più sostenere la veracità, e ne verrebbe anzi resa vana l’autorità: qualora si considerasse un’imposizione in materia di fede o di costumi difficile da realizzare o da capire, si potrebbe sempre fare appello alla possibilità di una simulazione a fin di bene. Contrariamente a questa interpretazione, sant’Agostino afferma la verità di quanto accaduto ad Antiochia, e mette in luce che a san Pietro non fu rimproverato di vivere le usanze giudaiche nelle quali era stato educato, quanto piuttosto il fatto di scegliere questo comportamento in modo simulato, cioè insincero[174]. Di san Pietro invece viene lodata l’umiltà nell’accettare la correzione pubblica:
“Il comportamento di Pietro ha pertanto valore come grande esempio di umiltà, che è il sommo dell’ascesi cristiana in quanto con l’umiltà si tutela la carità, mentre nulla più della superbia ha il potere di demolirla. Per questo non disse il Signore: ‘Prendete il mio giogo e imparate da me, perché io risuscito i morti da quattro giorni e li faccio uscire dal sepolcro (…)’, e così di seguito; ma disse Prendete il mio giogo e imparate da me che sono mite e umile di cuore. I miracoli infatti sono segni delle realtà spirituali, mentre l’essere mite e praticare umilmente la carità sono le stesse realtà spirituali”[175].
Di fatto, prosegue sant’Agostino, il comportamento di Pietro avrebbe dovuto aiutare i giudaizzanti a correggersi, proprio perché essi poterono vedere l’umiltà e la mitezza con la quale egli si era ravveduto, quale vera e sincera imitazione di Cristo. Attraverso la sua condotta, il seguace di Cristo è pertanto chiamato a manifestare le res spiritales (la carità) attraverso i signa rerum spiritalium (le virtù, tra le quali primeggiano – dopo le virtù teologali – l’umiltà e la mitezza, che si devono però mostrare in atti concreti). La coerenza tra realtà e segni è pure essenziale, e in essa consiste la virtù della veracità. Un’espressione particolarmente felice di questo concetto si trova nell’incipit dell’Omelia 9 del Commento alla lettera di san Giovanni:
“Amore, parola dolce, ma realtà ancora più dolce (…). Sempre bisogna attuare opere di misericordia, sentimenti di carità, pietà religiosa, castità incorrotta, sobrietà modesta; sia che siamo in pubblico o in casa, in mezzo agli uomini, nella nostra stanza, quando parliamo e quando taciamo, quando siamo impegnati in qualche lavoro o siamo liberi da impegni; sempre dobbiamo osservare quagli impegni, perché le virtù che ho nominato sono dentro di noi”[176].
Alla virtù della veracità sant’Agostino fa esplicito riferimento anche in un passo del Commento al Salmo 103, nel quale menziona il rapporto tra affabilità e carità. Dopo la raccomandazioneaffabilem te praesta, e dopo aver insistito sul fatto che la carità è il fine del precetto, il Vescovo di Ippona invita ad esaminarsi sulla sincerità con la quale si recita il Padre nostro, e ogni altra preghiera:
“Quando pregate Dio, interrogate i vostri cuori (…). Se dunque non pregherete, non avrete speranza. Se pregherete in modo diverso da quanto il Maestro ha insegnato, non verrete esauditi. Se avrete mentito nella preghiera, non otterrete nulla. Quindi, bisogna pregare, e bisogna dire il vero, e bisogna pregare così come il Maestro ci ha insegnato. Che tu lo voglia o meno, ogni giorno dirai rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Vuoi dirlo con tranquillità di coscienza? Fa’ ciò che dici”[177].
La sincerità di cuore deve essere il fondamento sia della preghiera sia delle opere di carità, che altrimenti perderebbero ogni efficacia. In un altro passo, sant’Agostino istituisce un collegamento tra questo discorso e il vizio dell’adulazione, a partire da un versetto di san Giovanni, “chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio”[178]:
“Operi la verità e così vieni alla luce. Cosa intendo dire dicendo operi la verità? Intendo dire che non inganni te stesso, non ti blandisci, non ti lusinghi (non te adulas); non dici che sei giusto mentre sei colpevole”[179].
Si tratta, è vero, di un’associazione che può sembrare solo lessicale. “Adulare sé stessi” è un difetto che possiede forse rapporti più stretti con il vizio dell’ipocrisia, contrario alla veracità, piuttosto che con quello dell’adulazione, contrario all’affabilità; tuttavia, si può sottolineare di nuovo la relazione tra queste due virtù, che si manifesta in questo caso nella sovrapposizione dei due vizi rispettivi. Sui pericoli dell’adulazione il Vescovo di Ippona tornerà più volte. Per esempio, nel commento a un Salmo, che dice “Per la vergogna si volgano indietro quelli che mi deridono”[180]: “Due sono i tipi di persecutori: quelli che insultano e quelli che adulano. E’ più pericolosa la lingua dell’adulatore della mano dell’uccisore”[181].
Sulla stessa linea argomentativa, e forse con maggiore profondità di analisi, risulta essere il modo con il quale sant’Agostino descrive le virtù di santa Monica, sua madre, nel commosso ritratto che di lei tratteggia nel capitolo 9 delle Confessioni, subito dopo averne narrato la morte. E’ emblematico – perché unisce considerazioni sul litigio, sull’adulazione e sull’amicizia – l’episodio nel quale si narra come santa Monica superò il vizio del bere che stava cominciando a possedere in giovane età, approfittando delle volte che si recava ad attingere il vino, secondo l’usanza familiare:
“L’ancella che accompagnava abitualmente mia madre al tino, durante un litigio, come avviene, a tu per tu con la piccola padrona, le rinfacciò il suo vizio, chiamandola con l’epiteto davvero offensivo di ‘beona’. Fu per la fanciulla una frustata. Riconobbe l’errore della propria consuetudine, la riprovò sull’istante e se ne spogliò. Come gli amici corrompono con le adulazioni, così i nemici per lo più correggono con le offese”[182].
Ma subito dopo la narrazione di questo episodio giovanile, la rievocazione passa a descrivere i tratti della personalità matura di santa Monica, paziente nei confronti di un marito dal carattere aspro e irritabile, oltre che infedele. Ella tuttavia, ricorda il figlio, “si adoperò per guadagnarlo a te, parlandogli di te attraverso le virtù di cui la facevi bella, amabile e ammirevole per il marito”[183]. E quando il marito si adirava, ella aveva imparato a non resistergli nemmeno a parole, impedendo così sul nascere qualsiasi litigio; in questo modo, con pazienza, era poi riuscita a ricondurlo al Signore, prima della morte. L’amabilità servì a santa Monica anche per superare le maldicenze di alcune serve, che cercavano di accattivarsi la simpatia della suocera: “Conquistò anche lei con il rispetto e la perseveranza nella pazienza e nella dolcezza (…), e le due donne vissero in una dolce amorevolezza degna di essere ricordata”[184]. Nel ritratto della madre, sant’Agostino descrive la forza della dolcezza nei rapporti, l’efficacia dell’affabilità sincera, via per conservare la pace e l’unità in famiglia, e per avvicinare a Dio i propri cari.
La centralità della dolcezza nel correggere viene sintetizzata da sant’Agostino a proposito di un noto testo paolino: “Fratelli, qualora qualcuno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito, correggetelo con dolcezza”[185]. Nel Commento a questo passo della lettera ai Galati, il discorso verte intorno al problema della convenienza o meno di correggere se si è in preda all’irritazione, perché ogni parola che si pronuncia con il cuore adirato è uno scatto rabbioso inteso a punire, più che benevolenza che vuole correggere. Il fondamento delle parole con le quali si corregge, invece, dev’essere la carità; e quindi la raccomandazione con la quale sant’Agostino riassume l’intero ragionamento è: “Ama e di’ quel che ti pare”[186]. Sembra, questa, una sintesi essenziale e completa che esprime come tutto ciò che si può dire con le labbra sarà necessariamente buono, se sorge da un cuore colmo d’amore, se è radicato nella carità. La stessa questione è riproposta, anni più tardi, in un celebre passo del Commento alla lettera di san Giovanni, che vale la pena di riprodurre a conclusione di questa rassegna di testi agostiniani:
“Troviamo un uomo che infierisce per motivo di carità e uno gentile per motivo di iniquità. Un padre percuote il figlio e il mercante di schiavi invece tratta con riguardo (…). Considerate bene quanto qui insegniamo, che cioè i fatti degli uomini non si differenziano se non partendo dalla comune radice della carità. Molte cose infatti possono avvenire che hanno una apparenza buona ma non procedono dalla radice della carità: anche le spine hanno i fiori; alcune cose sembrano aspre e dure, ma si fanno per instaurare una disciplina, sotto il comando della carità. Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene”[187].
Si ripropongono così quasi tutti i temi che sono stati toccati nel corso di queste riflessioni, oltre ad essere forse uno dei passi più ispirati degli scritti di sant’Agostino. Ogni gesto e ogni azione del cristiano, il saluto, il silenzio, le parole di correzione o quelle di perdono, se affondano le radici nella dilectio, e vengono manifestate con cuore sincero, sono il volto visibile della carità.
Fermo restando che la necessità di sintesi non ha consentito di presentare uno studio approfondito dei Padri citati in questo capitolo, che avrebbe richiesto di collocarli nel loro contesto e di studiarne a fondo la visione, il percorso che è stato presentato ha consentito di mettere in luce alcuni elementi che sembrano essere comuni a ciascuno di essi. La scelta di autori che hanno avuto un grande influsso nel pensiero cristiano rende – ci sembra – significative le conclusioni che si possono trarre da questa rassegna.
In primo luogo, si è comprovata una certa oscillazione terminologica nell’indicare la virtù dell’affabilità, che non sembra essere causata unicamente da ragioni lessicali e stilistiche. Alla base della cangiante scelta di vocaboli, vi è infatti la realtà della profonda interconnessione esistente tra diverse virtù, che a volte si sovrappongono, nella vita morale e nelle scelte concrete della persona.
Sono stati rilevati infatti stretti rapporti tra affabilità e mitezza, così come tra affabilità e veracità; la prima coppia si colloca nel contesto della virtù della temperanza, mentre la seconda si trova all’interno della giustizia; l’affabilità possiede anche rapporti con la benevolenza, e questa con la liberalità. Anche i vizi corrispondenti sono collegati, oltre a trovarsi spesso uniti in pratica nell’esperienza morale: la litigiosità è mancanza di autodominio, ma anche di quella gentilezza nel tratto che sarebbe dovuta per giustizia a ogni persona; l’adulazione è eccesso di affabilità, che loda invece di correggere l’errore altrui (e manca così alla carità e alla giustizia), e nel contempo è mancanza di veracità e sincerità, cioè in qualche modo una manifestazione ipocrisia. Il cristiano è invece chiamato a possedere una coerenza l’interiorità e gli atti che compie, e a fuggire da ogni simulazione.
La franchezza o veracità nei rapporti è una virtù che condensa vari aspetti di tutte le altre appena elencate: la franchezza è una sincera apertura agli altri, abbordabile, che non va disgiunta dalla capacità di riprendere amabilmente, di accettare con umiltà la correzione e di perdonare di cuore.
Radice di queste virtù, come di ogni altra, è la carità, che è la presenza stessa dello Spirito Santo nell’anima dei figli di Dio, che si scoprono tali grazie al dono di pietà, e traspare nelle loro parole e nei loro gesti, così come negli atteggiamenti e nelle decisioni più profonde. Questi atti umani sono chiamati frutti dello Spirito Santo, dal momento che vengono scelti grazie alle virtù e ai doni dello Spirito.
Le citazioni della Sacra Scrittura più ricorrenti nei passi della nostra indagine sono state Mt 11, 29, dove Cristo si pone come modello di mitezza e umiltà di cuore, e Gal 5, 22, dove san Paolo elenca i frutti dello Spirito Santo, cominciando proprio con la carità. Come si vede, la riflessione sulle virtù della convivenza sociale è strettamente collegata con il nucleo centrale della vita cristiana, cioè con il dono e la presenza dello Spirito nell’anima dei figli di Dio, di cui esse non sono che manifestazioni visibili.
Dal momento che i figli di Dio sono chiamati ad essere apostoli, i loro gesti e le loro parole devono essere strumenti efficaci per attrarre all’amore di Dio il prossimo. L’avvento del regno di giustizia, per il quale il cristiano prega ogni volta che ripete il Padre nostro e che si compirà pienamente soltanto nell’altra vita, dipende dunque essenzialmente dall’azione dello Spirito, e si deve manifestare nelle parole e nei gesti visibili dei figli di Dio che, se sono radicati nell’amore, rendono amabile la convivenza tra gli uomini.
Prima di affrontare lo studio della virtù dell’affabilità in san Tommaso, vale la pena di riassumere in modo sintetico alcuni degli aspetti del sistema morale tomista che risultano più utili come quadro in cui collocare le virtù sociali [188].
Tra le fonti della morale tomista si trovano evidentemente al primo posto la Sacra Scrittura, la dottrina della Chiesa e l’insegnamento dei Padri, tra i quali una particolare importanza è attribuita – tra gli altri – a sant’Agostino, a sant’Ambrogio, a san Giovanni Crisostomo, a san Gregorio di Nissa, a san Gregorio Magno e allo Pseudo Dionigi. Oltre all’influsso aristotelico, è stato messo in evidenza quello della filosofia stoica, giunta all’Aquinate principalmente attraverso sant’Ambrogio, sant’Agostino, Cicerone e Seneca, che si manifesta principalmente nella dottrina sul diritto naturale.
Asse portante dell’intero sistema morale di san Tommaso è il tema della felicità, affrontato in modo sistematico nel trattato sulla beatitudine, che si trova all’inizio della Secunda pars dellaSumma. In questo luogo e altrove l’Aquinate sottolinea come la felicità descritta da Aristotele nell’Etica non possa che essere imperfetta: “il Filosofo parla della felicità che è possibile ottenere in questa vita. Infatti, la felicità dell’altra vita è al di fuori della portata della ragione naturale”[189]; la beatitudine consiste nella visione di Dio. Tutte le cose tendono ad assomigliare a Dio che è il fine ultimo e il primo principio; la felicità dell’uomo consiste nell’assomigliare a Dio nella bontà[190].
Una volta fissato in Dio il termine della vita umana, questa si presenta come la via percorrendo la quale è possibile giungervi. La morale si suddivide pertanto in due grandi parti: la prima riguarda lo studio degli elementi generali che si trovano in ogni atto umano, cioè i suoi principi interni ed esterni (di questo si occupa la Prima Secundae), e la seconda affronta invece lo studio particolareggiato delle diverse specie di virtù, dei doni dello Spirito Santo, dei vizi e dei precetti ad esse relativi (Secunda Secundae). E’ necessario mettere in luce come per l’Aquinate non esiste contrasto, e neppure tensione, tra l’etica naturale e la morale cristiana: la legge naturale è posta in stretto rapporto con la legge eterna, la Lex Nova che è la grazia dello Spirito Santo nel cristiano. Acquista un’importanza essenziale, pertanto, lo studio dei doni dello Spirito, che rappresentano la realizzazione più piena, ottenuta mediante la grazia, di quelle virtù che erano già state studiate da Aristotele.
E’ noto che negli ultimi decenni numerosi moralisti hanno riportato al centro dell’attenzione il concetto di virtù, che per lungo tempo – fin dal periodo della scolastica immediatamente successivo all’Aquinate – era stato ridotto in posizione completamente subalterna rispetto a quello di legge e di obbligo[191]. La virtù occupa invece un luogo centrale – accanto a quello della felicità – nel sistema morale di san Tommaso, che giunge ad affermare che l’intera materia morale può essere riassunta nel trattato delle virtù, e che queste possono essere ridotte al numero di sette, le tre teologali e le quattro cardinali[192].
La virtù si può definire per l’Aquinate come abito durevole nelle nostre facoltà che inclina l’uomo ad agire d’accordo con la retta ragione e il fine ultimo: “la virtù è un abito operativo buono”[193]. La virtù è abito della retta elezione: l’atto elettivo della virtù consiste nell’accettazione del giudizio prudente della ragione da parte della potenza appetitiva, cioè la decisione interiore di compiere l’azione giusta con una passione ordinata. La virtù è nel contempo abito della retta intenzione del fine: l’uomo buono compie azioni buone con fini buoni. Oltre alla bontà dell’azione e del fine, l’uomo virtuoso mette in pratica anche altri abiti che garantiscono l’esecuzione perfetta dell’azione: la virtù è infatti anche abito della retta esecuzione dell’azione. E’ in questo ultimo momento che entra in gioco l’insieme di piccole virtù che si uniscono a una scelta buona.
San Tommaso presenta nella Secunda Secundae un totale di almeno cinquantatré virtù; analizzandole una per una, senza estrapolarle dal contesto, si può giungere a vedere come la dottrina etica dell’Aquinate disegni una sorta di umanesimo, nel quale le passioni e le virtù dell’uomo si integrano in un tutto armonioso, dove i fini più elevati che vengono proposti all’uomo (fino alla visione beatifica) si compaginano con considerazioni pratiche ricche di profonda umanità e buon senso. E’ quanto si nota in modo particolare nelle cosiddette “virtù sociali”, che sono quelle virtù che caratterizzano la convivenza umana, cioè l’amicizia con gli altri che ogni persona è chiamata a vivere, a motivo della natura sociale dell’uomo. Nelle pagine che dedica ad essa, san Tommaso fa riferimento alle proprietà dell’amicizia descritte da Aristotele, sottolineando quella dell’andare d’accordo con l’amico negli stati d’animo e nei ragionamenti. Visto che l’obiettivo ideale è convivere nella società con amici, le persone sono chiamate a trattarsi l’un l’altra gentilmente ed ad esser disposte ad aiutarsi a vicenda, rallegrandosi degli atti virtuosi altrui[194]. Queste sintetiche osservazioni possono servire da premessa per approfondire lo studio della virtù sociale dell’affabilità.
Punto di riferimento costante per san Tommaso è il Philosophus per eccellenza, cioè Aristotele. E’ tuttavia interessante sottolineare come, specialmente in campo etico, questi non venga considerato soltanto come un maestro tra gli altri: per il Dottore Angelico, l’Etica Nicomachea è una presentazione completa e totalmente condivisibile della filosofia morale in quanto tale, e non una concezione morale tra altre possibili[195]. Il Sententia in Ethicorum, composto da san Tommaso nel corso del suo secondo soggiorno parigino (1269-1272), si mantiene per forza di cose – essendo un commento letterale – molto legato all’articolazione della materia così come viene presentata dallo Stagirita; praticamente contemporanea al Sententia in Ethicorum è laSecunda Secundae della Summa Theologiae, nella quale invece l’Aquinate ha la possibilità di presentare la morale secondo uno schema e un ordine che meglio si accordano con la sua concezione personale.
San Tommaso analizza il concetto di virtù morale in generale nel libro II del Sententia in Ethicorum, seguendo da vicino l’Etica a Nicomaco, per presentare poi un elenco articolato di virtù, a ciascuna della quali affianca i relativi vizi. Nella lectio 9, l’Aquinate presenta le virtù che “hanno in comune che riguardano tutte le parole e le azioni per le quali gli uomini comunicano tra di loro”[196], e aggiunge un commento interessante perché vi si esprime una valutazione generale sulla finalità della scienza etica:
“Molte di queste virtù sono innominate. Ma, come abbiamo fatto per altre, cercheremo di dare loro un nome, per rendere più chiaro ciò che si dice, e per il bene che ne deriverà; perché il fine di questa scienza non è mostrare la verità, ma operare il bene”[197].
Si giunge così a una virtù della convivenza sociale, che Aristotele non chiama genericamentephilia; con questa parola, come si è visto, lo Stagirita intende non soltanto l’amicizia elettiva tra due persone, ma anche quel legame sociale per eccellenza che unisce i cittadini di una stessa città[198]. Il Dottore Angelico chiama questa virtù affabilitas, con un termine che proviene anzitutto dalla Vulgata, che lo utilizza in Sir 4, 7: “congregationi pauperum affabilem te facito”[199]; esso appartiene anche alla tradizione latina dei moralisti classici e cristiani, soprattutto Cicerone e sant’Ambrogio. Nel brano del Sententia si legge:
“Nelle cose piacevoli della vita, che fanno riferimento alle azioni serie, colui che si trova nel giusto mezzo è chiamato uomo amichevole, non a motivo dell’amore, ma per il fatto di saper convivere come conviene; noi lo possiamo definire affabile, e il giusto mezzo si chiama amicizia o affabilità”[200].
L’Aquinate descrive quindi i vizi che si allontanano per eccesso e per difetto da questo giusto mezzo. Tornerà su questo argomento in modo analogo ma più approfondito nel libro IV, lectio14, seguendo sempre da vicino Aristotele[201]; l’eccesso è quello dei placidi, cioè di coloro che cercano sempre di compiacere gli altri, e lodano qualunque cosa venga detta o fatta, per risultare sempre graditi e per non contristare nessuno; il difetto è proprio invece dei discoli et litigiosi, cioè coloro che contraddicono ciò che gli altri fanno o dicono, con animo di rattristarli.
Il medius habitus, lodevole e virtuoso, è caratterizzato dal fatto che chi lo possiede accetta o respinge le cose che vengono dette o fatte dagli altri secondo quanto è conveniente. Questohabitus – ribadisce san Tommaso, facendo eco nuovamente ad Aristotele – non possiede un nome preciso, ma è definito dalla sua somiglianza con l’amicizia (intesa qui nel suo senso specifico di frutto della scelta benevolente di due persone); da questa lo differenzia tuttavia il fatto che il virtuoso non prova affetto verso i destinatari della sua affabilità, che infatti dimostra sia con le persone conosciute sia con gli estranei.
Dopo aver precisato che ciò non deve far pensare che sia conveniente usare gli stessi modi con gli amici e con gli estranei, l’Aquinate passa ad analizzare – seguendo in modo puntuale il testo dell’Etica a Nicomaco – le proprietà di questa virtù, che in definitiva viene descritta come la capacità di trattare o conversare in modo conveniente con tutti, sapendo valutare quando è necessario causare negli altri un dolore modico, per un fine buono (di correzione, per esempio), e sapendo inoltre distinguere il modo con cui ci si rivolge a persone di rango differente. Conviene sottolineare un significativo arricchimento concettuale aggiunto da san Tommaso al testo aristotelico, nello spiegare qual è la finalità di questa virtù:
“[Essa] tende a far convivere coi propri simili senza tristezza, o perfino con diletto; ciò si riferisce al bene onesto e a quello utile o profittevole, poiché fa riferimento ai diletti e alle tristezze che hanno luogo nelle conversazioni; da queste è costituita l’umana convivenza in modo proprio ed essenziale, caratteristico dell’uomo, che in ciò infatti si differenzia dagli animali, che condividono cibo e altre cose del genere”[202].
Puntualizzando come per inciso che il convictus humanus consiste propriamente nelle conversazioni, san Tommaso sta in realtà affermando una caratteristica della natura umana; non si tratta di una qualità essenziale, ma di un proprium, cioè di uno dei predicabili che si trovano a metà strada tra la sostanza e gli accidenti: genus, differentia, species, proprium,accidens; in particolare, il proprium non appartiene all’essenza di una cosa, ma è causato dai principi essenziali di una specie. La relazione profonda dell’affabilità con la natura umana si afferma qui in modo solo incipiente; essa sarà assi più pronunciata e chiara nella trattazione di questa virtù che si trova nella Summa, e si avrà modo di tornare sul tema descrivendo il rapporto tra l’affabilità e la veracità.
La principale novità rispetto al trattato aristotelico, e anche rispetto al Sententia, è la collocazione delle virtù sociali tra le parti potenziali della giustizia, studiate nelle questioni 101-122 della Secunda Secundae[203].
Parti potenziali di una virtù cardinale sono quelle virtù che hanno con essa in comune l’oggetto, che tuttavia non è considerato nel suo senso più generale: sono “quelle virtù annesse che sono ordinate a qualche atto o materia secondari, senza possedere tutta la potenza della virtù principale”[204]. Scopo della giustizia, secondo la definizione classica che è ripresa da san Tommaso, è quello di rendere a ciascuno il dovuto secondo equità[205]; se non si considera in senso stretto l’equità con la quale si è tenuti (senza esserne del resto capaci) a dare ciò che è dovuto, si individuano tre virtù collegate alla giustizia: la religione, la pietà e l’osservanza, che possono essere definite virtù di venerazione o di riverenza. Se invece non si considera in senso stretto il debito, si identificano sei virtù annesse alla giustizia: la veracità, la gratitudine, la vendetta, la liberalità, l’affabilità o amicizia, e l’epicheia o equità. In queste virtù, il debito non è rigoroso e legale, ma soltanto morale; esse vengono definite virtù di urbanità o di civiltà. Possono risultare a questo proposito chiarificatrici le seguenti considerazioni:
“La giustizia esprime il riconoscimento basilare che è dovuto alla persona. E’ un’esigenza etica fondamentale e sempre inviolabile, ma è insufficiente per ottenere e garantire la totalità del bene umano. I rapporti tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amici, e tra l’uomo e Dio non possono essere concepiti in base alla giustizia in senso stretto. Anche nella vita sociale, la sola giustizia, non unita all’affabilità, alla solidarietà, alla comprensione e alla pazienza, ecc. potrebbe degenerare in crudeltà”[206].
Lo schema delle virtù annesse alla giustizia che viene presentato da san Tommaso sintetizza diversi elenchi di virtù classici, e si rifà essenzialmente a Cicerone e ad Aristotele, riassumendo così una tradizione che raccoglie la morale stoica e la peripatetica; in tutto il trattato si può riscontrare un riferimento costante ad autori classici non cristiani, che vengono integrati dai riferimenti biblici e patristici, primo tra tutti sant’Agostino. L’originalità del trattato non è quindi da cercare tanto nell’ispirazione delle singole questioni che analizzano ciascuna virtù, quanto piuttosto nella strutturazione generale che porta ad una sintesi organica, nella quale i riferimenti ai filosofi classici e alla morale cristiana sono armoniosamente integrati[207].
L’Aquinate attribuisce a Macrobio l’inserzione nell’elenco delle parti della giustizia dell’affabilitaso amicitia, che sarebbe stata tralasciata da Cicerone insieme alla liberalità, a motivo del fatto che per entrambe l’esigibilità della cosa dovuta ha scarsa forza[208].
Ambrogio Macrobio Teodosio, retore ed erudito africano vissuto a Roma tra la fine del IV e i primi decenni del V secolo dopo Cristo, ebbe un importante influsso nel medioevo per i suoiCommentarii in Somnium Scipionis di Cicerone, che sono una sorta di compendio di materiale filosofico morale post classico di matrice per lo più neoplatonica, in realtà privo di una sostanziale originalità[209]. Il passo di Macrobio citato da san Tommaso riporta l’elenco delle seguenti virtù derivate dalla giustizia: innocenza, amicizia, concordia, pietà, religione, affetto e umanità[210].
Un altro riferimento a Macrobio si trova in un passo del Commento alle Sentenze, dove il Dottore Angelico elenca sei classificazioni delle virtù annesse alla giustizia, a partire da diversi filosofi, con alcune variazioni rispetto alla lista che presenterà successivamente nellaSumma[211]. In riferimento all’amicitia, presentata da Macrobio come parte della giustizia, san Tommaso chiarisce che tale virtù “non va qui intesa nel senso del libro VIII dell’Etica [di Aristotele], cioè come costituita principalmente dall’affetto, ma piuttosto come nel libro IV, cap. 12, che riguarda essenzialmente l’affabilità esteriore, che si ha anche nei confronti degli estranei”[212]. E’ il senso con il quale l’Aquinate chiamerà amicitia seu affabilitas la virtù alla quale dedica la q. 114 della Secunda Secundae.
La questione dedicata allo studio della amicitia seu affabilitas è divisa in due articoli: il primo indaga se essa sia una virtù speciale, e il secondo se si tratti di una parte potenziale della giustizia[213]. Nelle argomentazioni, ci sono più di dieci menzioni di Aristotele, a riprova di quanto continui ad essere determinante in questo discorso l’influsso dello Stagirita. Nel corpo del primo articolo, si offre una definizione della virtù dell’affabilità:
“L’uomo nella vita quotidiana deve essere ordinato come si conviene in rapporto agli altri, sia negli atti che nelle parole: in modo cioè da trattare tutti secondo il dovuto. Si richiede quindi una virtù speciale che conservi l’ordine suddetto. E questa virtù è denominata amicizia o affabilità”[214].
Il primo dubbio che il Dottore Angelico dirime riguarda la distinzione tra la virtù dell’amicizia, così come essa è intesa in generale, e l’affabilità:
“Il Filosofo nell’Etica [l. 8] parla di due tipi di amicizia. La prima consiste principalmente nell’affetto reciproco. E questa può derivare da qualsiasi virtù. Ora, quanto si riferisce a questa amicizia noi l’abbiamo già esaminato parlando della carità [q. 23, a. 1, ad 1; qq. 25 ss.]. Il secondo tipo di amicizia di cui parla Aristotele [Ethic. 4, 12] si limita invece alle parole o ai fatti esterni, e non ha la perfetta natura dell’amicizia, ma solo una certa somiglianza con essa: in quanto cioè uno si comporta bene con le persone con cui tratta”[215].
Sottesa a queste precisazioni si trova dunque la definizione, presente nella q. 23 della Secunda Secundae, della carità come amicizia con Dio[216]. La seconda obiezione che san Tommaso confuta è quella che accusa di simulazione chi manifesta segni di amicizia verso persone che in realtà non ama, perché sconosciuti:
“Ogni uomo per natura è amico di tutti gli uomini secondo un certo amore generico, come dice la Scrittura [Sir 13, 15]: Ogni creatura vivente ama il suo simile. Ora, i segni di amicizia che uno mostra esternamente con le parole o con i fatti anche verso gli estranei e gli sconosciuti stanno a esprimere questo amore. Non c’è quindi simulazione”[217].
La terza obiezione è di carattere più psicologico, e riguarda la convenienza o meno di provocare piacere negli altri, dal momento che la Scrittura raccomanda una certa severità, affermando che “il cuore dei saggi è una casa in lutto, e il cuore degli stolti una casa in festa”[218]; il virtuoso sarebbe tenuto ad astenersi dai piaceri, e l’affabilità, che tende a provocare piacere nell’altro, non sarebbe pertanto una virtù. La risposta è sottile, perché raccomanda di sforzarsi di adeguare il proprio stato d’animo a quello del prossimo, cercando nel contempo di trasmettergli allegria:
“Il cuore dei saggi si trova dov’è la tristezza non per procurarla al prossimo (…), ma piuttosto per consolare gli afflitti, secondo le parole della Scrittura [Sir 7, 34]: Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto (…). E’ quindi proprio del sapiente arrecare a coloro con i quali convive un certo piacere: non sensuale, che ripugna alla virtù, ma onesto, secondo le parole del Salmo: Ecco quanto è buono e soave che i fratelli vivano insieme (Sal 132, 1)”[219].
Viene poi segnalato un particolare atteggiamento da mantenere con chi pecca: “non dobbiamo quindi mostrare, per compiacenza, un volto sorridente a quelli che sono sulla china del peccato, per non sembrare consenzienti alle loro colpe e quasi offrire un incoraggiamento a peccare”[220].
Il secondo articolo della questione studia se la virtù dell’affabilità sia o meno una parte potenziale della giustizia e l’auctoritas citata a favore di questa ipotesi è – come si è detto – Macrobio[221]:
“L’affabilità è una parte [potenziale] della giustizia in quanto si affianca ad essa come alla rispettiva virtù cardinale. Essa infatti ha in comune con la giustizia il fatto di essere relativa ad altri. Non adegua però la nozione di giustizia poiché il debito a cui si riferisce non è perfetto come il debito legale che obbliga verso gli altri secondo la costrizione della legge, e neppure come il debito che nasce dall’aver ricevuto un beneficio, ma si limita a soddisfare un debito di onestà, dovuto più alla persona virtuosa obbligata a renderlo che non a quanti ne sono l’oggetto, facendo sì che tale persona faccia agli altri ciò che conviene che essa faccia”[222].
Vengono quindi risolte tre difficoltà che erano state presentate all’inizio dell’articolo. La prima contiene un’argomentazione strettamente collegata con la q. 109, che riguarda la virtù della veracità. Veracità e affabilità vengono presentate come virtù necessarie per la sussistenza della società: dal momento che l’uomo è animale sociale, la convivenza umana esige che si vivano queste due virtù: “come l’uomo non può vivere in società senza veracità, così non può vivere senza soddisfazioni”[223]. Esiste pertanto, prosegue l’Aquinate, un debito naturale di onestà, per il quale l’uomo è tenuto a convivere con gli altri delectabiliter.
Un’altra difficoltà riguarda il rapporto tra questa virtù e la mitezza: dal momento che entrambe sembrano essere mirate a moderare i piaceri, si ipotizza che anche l’affabilità sia in realtà una parte della temperanza. La soluzione avanzata da san Tommaso è l’affabilità non riguardi in realtà il freno che va dato ai piaceri sensibili, quanto piuttosto la gioia dell’umana convivenza; gioia che non è necessario moderare[224].
L’ultimo dubbio è se il trattare in modo uguale persone disuguali – ci si riferisce alle persone conosciute e agli sconosciuti – non sia in realtà un’ingiustizia; l’Aquinate risponde, interpretando Aristotele, che la virtù non richiede di comportarsi allo stesso modo con gli amici e con gli estranei, quanto piuttosto di trattare ciascuno come è conveniente.
Le questioni 115 e 116 descrivono i vizi che si oppongono all’affabilità, seguendo l’impostazione presentata da Aristotele nell’Etica e cominciando dall’adulazione, che viene definita come segue:
“Se uno vuole trattare gli altri compiacendoli in tutto nelle sue parole, esagera nella compiacenza, per cui pecca per eccesso. E se uno lo fa solo con l’intenzione di compiacere, merita l’appellativo di ‘piaggiatore’ [placidum], secondo il Filosofo [Ethic. 4, 12]; se invece lo fa con l’intenzione di un guadagno, allora è un ‘lusingatore’, o un ‘adulatore’ [blanditor sive adulator]. Tuttavia, ordinariamente si dà il nome di adulatore a tutti quelli che nel trattare vogliono compiacere gli altri con le parole o con i fatti oltre i limiti dell’onestà”[225].
Nel primo Articolo, san Tommaso si domanda se l’adulazione sia un peccato. Infatti, la lode nei confronti di una persona può essere buona o cattiva a seconda delle circostanze; se il fine è confortare un amico nella tribolazione, oppure spronarlo al bene, lodare è un atto di amicizia; si cade nell’adulazione se invece si lodano cose non lodevoli, oppure cose non ancora dette o fatte, o anche se esiste il rischio di indurre l’altro a vanagloria. D’altro canto, è virtuoso lodare un altro se l’intenzione è quella di farlo procedere nella carità, mentre è peccato voler piacere agli uomini per vanagloria, per guadagno, o in cose cattive.
L’Aquinate si pone anche una questione di carattere più “tecnico”, a partire dall’osservazione che il vizio della maldicenza è il contrario dell’adulazione; ma se la maldicenza è un vizio, il suo contrario deve essere per forza una virtù. La soluzione è che non è vero che il contrario di un vizio debba essere necessariamente una virtù; in questo caso, i due vizi si oppongono per la materialità dell’azione (parlar bene o male di qualcuno), ma non per il fine, che è diverso: l’adulatore parla bene per compiacere, mentre il detrattore parla male per nuocere alla reputazione.
Nel secondo Articolo vengono descritti i casi nei quali l’adulazione è un peccato mortale:
“Il peccato mortale è quello che è contro la carità. Ora, l’adulazione a volte è contro la carità, ma non sempre. Essa è contro la carità in tre modi. Primo, perché si lodino i peccati di una persona (…). In questo caso l’adulazione è un peccato mortale: Guai a coloro che chiamano bene il male, dice Isaia [Is 5, 20]. Secondo, per la cattiva intenzione: cioè, quando si adula una persona per danneggiarla astutamente, o nel corpo o nell’anima. E anche per questo è un peccato mortale. Nei Proverbi [27, 6] infatti si legge: Leali sono le ferite di un amico, fallaci i baci di un nemico. Terzo, per le occasioni di peccato che si offre (…). E in tal caso, bisogna vedere se l’occasione è stata data oppure soltanto ricevuta, e quali siano i danni che ne derivano, come vedemmo sopra [q. 43] parlando dello scandalo”[226].
Come si vede, l’aspetto determinante per valutare la gravità morale del peccato di adulazione è il modo con cui esso si oppone alla carità. E’ infatti possibile che il fine per il quale ci si propone di adulare una persona renda veniale il peccato:
“Se invece uno ha adulato una persona per il solo desiderio di compiacerla, o per evitare un male, oppure per ottenere un bene in caso di necessità, allora la sua adulazione non è contraria alla carità. Per cui non è un peccato mortale ma veniale”[227].
E’ interessante approfondire la sottile argomentazione intorno alla gravità del peccato, costruita intorno a citazioni della Scrittura e dei Padri. La prima obiezione riporta infatti, oltre a diverse citazioni scritturistiche, una citazione di san Girolamo, secondo la quale “non c’è nulla che corrompa l’anima più facilmente dell’adulazione”[228]; anche la citazione dei Proverbi riportata nel corpo dell’articolo è – come si è visto – ampiamente presente nella patristica[229]. Tuttavia, nella risposta all’obiezione, l’Aquinate puntualizza con maggior precisione:
“Tutti quei testi parlano dell’adulatore che loda il peccato di qualcuno. Si può infatti dire che tale adulazione nuoce più della spada del persecutore per il fatto che compromette beni più grandi, cioè i beni spirituali. Essa però non nuoce con la stessa efficacia: poiché la spada del persecutore uccide direttamente, quale causa sufficiente della morte, mentre nessuno può essere la causa sufficiente del peccato di un altro”[230].
Ugualmente acuta è la precisazione contenuta nella risposta alla seconda obiezione, nella quale si ribadisce che chi loda con l’intenzione di nuocere al prossimo, in realtà sta danneggiando innanzitutto sé stesso, e “per sé stesso è causa diretta ed efficace di peccato, mentre per gli altri è solo una causa occasionale”[231]. Sotteso a queste argomentazioni è il discorso sulla responsabilità morale nell’azione peccaminosa, che può essere attribuita unicamente al soggetto che compie il peccato (e non, per esempio, a un istigatore o a un adulatore). San Tommaso affronta questo argomento in diversi luoghi, e afferma per esempio che “causa sufficiente del peccato, che è la rovina spirituale, non può essere per l’uomo altro che la propria volontà”[232]. Le parole e le azioni altrui possono essere solo causa imperfetta di peccato, offrendone l’occasione.
Per sottolineare la corrispondenza e sintonia con le argomentazioni tomasiane fin qui commentate, si riporta di seguito, a mo’ di sintesi, un punto del Catechismo della Chiesa Cattolica che tratta il vizio dell’adulazione, all’interno dei peccati contro l’ottavo comandamento:
“È da bandire qualsiasi parola o atteggiamento che, per lusinga, adulazione o compiacenza, incoraggi e confermi altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti”[233].
Anche la questione 116 è suddivisa in due articoli, nei quali si discute se il litigio sia contrario all’affabilità e se sia più o meno grave dell’adulazione. Nel corpo del primo articolo, i litigio viene definito nel modo seguente:
“Il litigio consiste propriamente nel contraddire a parole le affermazioni di un altro. Ora, in questa contraddizione ci possono essere due cause. Talora infatti si contraddice perché la persona che parla non riscuote il consenso di chi la contraddice per l’assenza di un amore che unisca gli animi. E questo è proprio della discordia, che si contrappone alla carità. Talora invece la contraddizione nasce per il fatto che uno non teme di rattristare il prossimo. E così avviene il litigio, il quale si contrappone alla predetta virtù dell’amabilità e affabilità, che ha il compito di farci convivere piacevolmente con gli altri. Scrive infatti il Filosofo [Ethic. 8, 6] che coloro i quali contraddicono in tutto per contristare e non si preoccupano di nulla, sono detti intrattabili e litigiosi”[234].
Il litigio è pertanto caratterizzato dal fatto di tendere a contristare il prossimo, a differenza della contesa (contentio) che mira invece a generare discordia. Si risponde quindi a un’obiezione, che suggerisce che il vizio del litigio sia da contrapporre alla virtù della mansuetudine, invece che all’affabilità, dal momento che spesso è l’ira a provocare le liti. Tuttavia, afferma l’Aquinate, la contrapposizione diretta dei vizi alle virtù non va fatta in base alle loro cause, ma piuttosto alle specie dell’atto peccaminoso; il litigio può senz’altro nascere dall’ira, ma anche da tante altre cause, e pertanto non è detto che sia da contrapporre alla mansuetudine. Né va contrapposto alla temperanza per il fatto di apparire causato a volte dalla passione che questa è chiamata a moderare, poiché la causa profonda è piuttosto la concupiscenza, intesa come vizio universale dal quale nascono tutti gli altri vizi[235].
San Tommaso si pone quindi la domanda se sia più grave l’adulazione o il litigio: per rispondere, parte in primo luogo dalla considerazione che un vizio è tanto più grave quanto più è incompatibile con la virtù alla quale si oppone: “Ora, la virtù dell’amabilità tende più a compiacere che a rattristare. Perciò il litigioso, che eccede nel rattristare, pecca più gravemente dell’adulatore, che esagera nel compiacere”[236]. Un altro punto di vista per valutare la gravità dei peccati di adulazione e di litigio è in base ai motivi esterni dell’azione peccaminosa:
“Da questo lato, talora è un peccato più grave l’adulazione: per esempio quando uno con l’inganno cerca di acquistare onore o danaro. Talora invece è più grave il litigio: per esempio quando uno mira a impugnare la verità, o a gettare discredito sull’interlocutore”[237].
La maggiore gravità del litigio rispetto all’adulazione – si legge poi nella soluzione delle obiezioni presentate all’inizio dell’Articolo secondo – deriva dal fatto che a parità di condizioni è più grave nuocere apertamente, quasi di prepotenza, che nascostamente; e infatti, così come la rapina è più grave del furto, perché implica una certa violenza fisica, allo stesso modo il litigioso che attacca apertamente compie un atto peggiore dell’adulatore che loda in modo ingannevole.
A conclusione dell’Articolo, san Tommaso precisa che l’adulazione è probabilmente più turpe e vergognosa (in quanto va unita all’inganno e a una certa falsità di ragione), ma non per questo è peccato più grave: il fatto che un peccato sia più vergognoso non implica di per sé una gravità maggiore. I peccati più gravi sono infatti quelli che comportano un maggiore disprezzo, mentre i più turpi e vergognosi sono quelli nei quali la ragione si lascia in qualche modo dominare dalla carne.
Come si è visto, nella trattazione dell’affabilità san Tommaso rimanda alla questione 109, che affronta la veracità, e lascia intravedere l’esistenza, sulla scia di Aristotele, di una relazione particolare tra queste due virtù sociali[238]:
“Sopra abbiamo detto che l’uomo, essendo un animale socievole, è moralmente tenuto a manifestare la verità agli altri, senza di che la società umana non potrebbe sussistere. Ora, come l’uomo non può vivere in società senza veracità, così non può vivere senza soddisfazioni”[239].
Un’argomentazione simile è presente nel passo della Prima Secundae nel quale l’Aquinate differenzia tra di loro le virtù morali in base all’ordinamento specifico di ciascuna al bene, e descrive affabilità e veracità nel modo seguente:
“Nelle cose serie, infatti, ci si può mostrare agli altri in due modi. Primo, in modo gradevole con parole e gesti convenienti, e questo riguarda la virtù che Aristotele chiama amicizia, e può essere detta affabilità; in secondo luogo, ci si mostra attraverso parole e gesti in modo veritiero, e ciò ha a che fare con un’altra virtù, che si chiama veracità”[240].
Il ragionamento in base al quale le virtù vengono distinte e messe in rapporto tra di loro risale a sant’Agostino, che viene citato come auctoritas proprio nel corpo dell’articolo 2 della questione 109, che spiega che la veracità è, come l’affabilità, una virtù speciale, parte potenziale della giustizia: essendo la virtù ordinata al bene, laddove si riscontra un aspetto specifico di bontà, è necessario che vi sia una virtù speciale finalizzata a orientarvi e disporvi l’uomo:
“Poiché il bene, secondo sant’Agostino, ha tra i suoi costitutivi l’ordine, è necessario rilevare da ogni determinato ordine uno specifico aspetto di bene. Ora, vi è un certo ordine speciale nel fatto che i nostri atteggiamenti esterni, cioè le parole e le azioni, corrispondono debitamente come segni alle realtà significate. E a ciò l’uomo viene predisposto dalla virtù della veracità” [241].
Nella Summa si nota un certo arricchimento concettuale rispetto al Sententia in Ethicorum, dovuto senz’altro a una maggior libertà di impostazione del discorso, che non deve restare legato all’esposizione aristotelica: di fatto, il trattato delle virtù sociali si amplia, per l’inserimento di alcuni argomenti nuovi nell’esposizione della veracità, quali la menzogna e l’ipocrisia (vizi non affrontati nell’Etica di Aristotele, trattati invece nelle quaestiones 110 e 111). Ma non si tratta soltanto di una crescita per così dire quantitativa, che potrebbe essere motivata anche solo dallo scopo pastorale di offrire una descrizione più dettagliata dei vizi, utile ai confessori. Le due virtù assumono infatti un’importanza maggiore, e non sono più collocate – come avviene nel Sententia – in modo generico tra “gli atti seri degli uomini”[242], ma diventano parti potenziali della giustizia. La domanda sull’esigibilità del debito diventa, nello studio di entrambe le virtù, pregnante: l’uomo è tenuto a mostrarsi veracemente per quello che è, e a mostrarsi affabilmente aperto agli altri non per un dovere esigibile legalmente, ma piuttosto “per un debito naturale di onestà”[243]:
“Essendo l’uomo un animale fatto per vivere in società, per natura un uomo deve all’altro ciò che è indispensabile per la conservazione della società umana. Ora, gli uomini non potrebbero convivere senza credersi reciprocamente, dicendo l’uno la verità all’altro. Quindi anche la virtù della veracità a suo modo ha di mira un debito”[244].
Lo stesso naturale debito d’onestà esige ad ogni uomo di dire la verità e di mostrarsi affabile e amichevole con i suoi simili, e questo dovere si fonda sulla comune natura sociale dell’uomo. Come si vede, è l’intera impostazione a farsi qui più teoretica rispetto al Sententia in Ethicorum, e quello che poteva sembrare lo studio di due virtù tutto sommato secondarie diventa invece un approfondimento sulla natura umana: nel caso della veritas, sulla veridicità del rapporto tra i segni (parole e gesti) e la realtà della persona, nel caso dell’affabilitas, sull’apertura e sulla socievolezza come necessari requisiti richiesti dalla natura sociale dell’uomo.
Il fatto che non si possano esigere per legge queste virtù non implica che esse siano da relegare nella sfera privata, come qualcosa che può essere insegnato con l’esempio ma dipende unicamente dalla buona volontà di ciascuno. Al contrario, il collegamento vitale dell’affabilità e della veracità con la natura dell’uomo, che non può vivere in una società priva di fiducia e amicizia (intesa qui nel senso più ampio), suggerisce che esse siano condizioni perché si possa dare la situazione politica e legale in cui la giustizia propriamente detta possa diventare un requisito esigibile legalmente. Queste riflessioni possono portare a concludere che affabilità e veracità sono virtù secondarie nella vita politica, e pertanto non possono essere materia sulla quale legislare, ma sono nel contempo virtù necessarie per la vita e per la stessa sussistenza della società umana[245].
Nel paragrafo successivo si avrà modo di approfondire ulteriormente questi concetti, a partire dalla considerazione della natura sociale dell’uomo, ripetutamente ricordata da san Tommaso nelle questioni sulle quali ci si è fin qui soffermati.
Sia la trattazione della virtù sociale della veracità sia quella dell’affabilità fa riferimento alla nota definizione aristotelica dell’uomo come “animale politico” [246]. Concretamente, san Tommaso rende qui l’espressione greca zôon politikón con il latino animal sociale, e afferma che gli atti propri di entrambe le virtù sono in qualche modo dovuti agli altri perché altrimenti la societasumana non potrebbe sussistere[247]. Sembra essere dimostrato che la traduzione sia frutto di una precisa scelta dell’Aquinate, che tende a preferirla ad altre possibili, come animal politicumoppure animal civile, alle quali di fatto ricorre in altri luoghi: sociale rimanda al termine usato nella tradizione stoica per indicare la condizione di cittadino del mondo, che supera i limiti dellapolis, e societas esprime un concetto che non esiste nella cultura greca e che fa riferimento al modo propriamente umano di vivere insieme, di convivere[248].
Nel Sententia in Politicorum, san Tommaso indica tra le caratteristiche essenziali dell’uomo, in quanto capace di vivere insieme ai suoi simili, l’essere dotato di linguaggio, a differenza degli animali, che posseggono al massimo una voce e un verso, e non sono in grado di capire quello che dicono. Esiste infatti una differenza tra il discorso (sermo) e la semplice voce; quest’ultima è segno del dolore e del piacere, e delle passioni ad essi relative, come lo è il ruggito per il leone e il latrato per il cane, mentre l’uomo per questi fini usa delle esclamazioni. Invece:
“Poiché la parola (sermo) è stata data all’uomo dalla natura ed è finalizzata a permettere la comunicazione tra gli uomini circa l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, e altri valori simili, ne consegue – dato che la natura non fa niente invano – che è naturale agli uomini comunicare tra di loro su queste realtà. Ora, è precisamente il comunicare in questi valori (communicatio in istis) che costituisce la famiglia e la città; perciò l’uomo è per natura un essere domestico e politico”[249].
Sono espressioni che ricordano alcune del Sententia in Ethicorum sull’affabilità, virtù studiata nel contesto di quegli atti che “hanno a che fare con le conversazioni umane, grazie alle quali gli uomini si trattano l’un l’altro in modo sommamente appropriato alla loro natura, e in generale con ogni tipo di rapporto umano che avviene quando gli uomini condividono parole e cose”[250]. Conviene precisare che il verbo latino communicare possiede un significato assai più ricco della trasmissione di informazione, perché rimanda all’idea di “possesso comune”; non si tratta quindi di un semplice scambio in materia di giusto o ingiusto, quanto piuttosto di una “convergenza di tutti i membri della città su questi beni che sono ad essi comuni. In queste condizioni, dire dell’uomo che è un animale politico, o meglio sociale, non significa indicare in lui una semplice tendenza bruta di un istinto più o meno gregario, ma esprimere proprio la capacità di sviluppo virtuoso necessario alla vita in società”[251].
Non è qui privo di interesse ricordare come l’Aquinate, trattando all’interno delle virtù sociali l’amicitia o affabilitas, puntualizzi che esistano due tipi di amicizia[252]; della prima, che consiste principalmente nell’affetto reciproco e può andare unita a qualsiasi virtù, egli afferma di aver già parlato trattando della carità. Infatti, una spiegazione emblematica è presentata nel corpo del primo Articolo della questione 23 della Secunda Secundae, che descrive la carità in sé stessa. San Tommaso sostiene che si può definire amicizia solo l’amore che implica benevolenza e una certa reciprocità, poiché l’amico ama nel suo amico qualcuno che a sua volta lo ama (quia amicus est amico amicus):
“Questa reciproca benevolenza – prosegue l’Aquinate – si fonda su una qualche comunicazione (communicatio). Dato che esiste una certa ‘comunicazione’ dell’uomo con Dio, in quanto egli ci comunica la sua beatitudine, occorre che una certa amicizia sia fondata su tale ‘comunicazione’. E’ di questa ‘comunicazione’ che si parla in 1Cor 1, 9: ‘fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione [societas]del Figlio suo’. La carità è l’amore fondato su questa comunicazione; è chiaro allora che la carità costituisce una certa amicizia dell’uomo con Dio”[253].
La prima accezione di amicitia, dunque, è quella che si fonda sulla comunicazione della vita divina all’uomo, chiamato a vivere nella societas dei figli di Dio, basata sull’amicizia o comunione con Dio, che è la carità[254]. Questa amicizia dunque “può derivare da qualsiasi virtù”[255], e pertanto parlando con rigore non è propriamente una virtù, ma piuttosto una disposizione abituale conseguente alle virtù.
Il secondo tipo di amicizia, per la quale viene indicato come nome specifico affabilitas, è più ampio[256]. Esso si estende a tutti coloro che appartengono alla specie umana e ne condividono la natura; nei confronti di costoro, l’uomo è tenuto a mostrare un’apertura che va aldilà di una semplice urbanità esteriore: “il riconoscimento sociale, l’affabilità con tutti, non è solo una manifestazione particolare di cortesia, ma una necessità umana vitale”[257]. Affabilitasè sinonimo di amicitia perché per san Tommaso quest’ultimo termine conserva la densità concettuale della philia aristotelica; tuttavia, per dirla con parole di una bella sintesi di Torrell, “egli stesso farà subire al termine un vero cambiamento, definendo la carità un’amicizia tra Dio e l’uomo (…). Se il Filosofo continua a fornire la struttura della definizione, tuttavia i suoi elementi sono completamente trasformati poiché il bene intorno al quale si stabilisce questa comunicazione tra Dio e gli uomini, e tra gli uomini stessi, è la vita divina comunicata mediante la grazia”[258].
Una traduzione più rigorosa del concetto tomista di affabilitas potrebbe quindi essere “socievolezza” e “apertura”, parole che rimandano più direttamente al senso più ampio dell’amicizia: un certo principio di ‘comunione’ che esiste tra gli uomini a partire dalla ‘comunicazione/condivisione’ della natura umana, che avviene nel linguaggio e nei gesti. “Affabilità” – per lo meno in italiano – sembra essere un termine che può rendere bene il concetto, pur necessitando di un inquadramento opportuno, specialmente a motivo della sua derivazione dal latino fateor, parlare.
Le considerazioni fin qui esposte mettono bene in risalto la sostanziale differenza tra la concezione classica di amicizia e quella cristiana; la prima, infatti, non riuscì mai a ipotizzare la possibilità di un’amicizia tra l’uomo e Dio, proprio per l’impossibilità di un rapporto basato su una certa uguaglianza; il pensiero cristiano, e in particolare san Tommaso, giunge invece a definire la carità come amicizia con Dio, un’amicizia che è comunione con la vita intima delle tre Persone della Trinità, alla quale ogni uomo è chiamato, per il semplice fatto di partecipare della natura umana[259].
L’inclinazione dell’uomo alla vita in società si sviluppa e rafforza principalmente grazie alla virtù della giustizia, che tuttavia raggiunge la propria perfezione solo quando riesce a creare l’amicizia, ai diversi livelli della società, dall’amicizia personale e famigliare, a quella sociale e politica. Il discorso sull’amicizia politica, cioè quell’insieme di relazioni che l’uomo intrattiene con i suoi simili nell’organizzazione politica della società, potrebbe essere ulteriormente approfondito, poiché essa può essere intesa proprio come una parte della più generale virtù dell’affabilità. Sarà sufficiente qui aggiungere che l’amicizia, legame propriamente umano che unisce ogni persona, riceve “la sua dimensione soprannaturale nella carità fraterna, che forma la Chiesa ed è il cemento di ogni vera comunità cristiana, così come nell’amore di Dio che, inteso come amicizia, stabilisce una sorprendente e misteriosa ‘società’ tra l’uomo e Dio”[260]. E’ dunque possibile considerare l’amicizia (intesa come sinonimo di affabilità) come il nesso tra la giustizia e la carità, non però come stadio intermedio tra le due, dal momento che l’amicizia è giustizia e nel contempo è carità[261].
Una sintesi espressiva di quanto è stato studiato circa i rapporti tra veracità, affabilità e carità si trova in un passo del commento si san Tommaso alla seconda lettera ai Corinzi. Riportiamo di seguito il testo paolino:
“Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga biasimato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza nelle tribolazioni (…), con purezza, sapienza, pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio” [262].
Nel commentare questo passo, l’Aquinate afferma che la bontà delle opere si manifesta in tre aspetti: la perfezione delle virtù, che riguarda il cuore (e qui san Tommaso riscontra un implicito accenno alle quattro virtù cardinali); la sincerità del linguaggio, che riguarda la bocca; la potenza delle opere che riguarda l’azione:
“La carità si manifesta in due modi, uno esterno e l’altro interiore; nel primo, si manifesta nella affabilità verso il prossimo, poiché non è bene non essere affabili con le persone che si amano. Perciò dice ‘in suavitate’, cioè nell’amichevole convivenza con il prossimo, affinché siamo dolci. Ma non secondo la cortesia mondana, ma in quella che è frutto dell’amore di Dio, cioè dello Spirito Santo (per questo dice in Spiritu Sancto), vale a dire quella che lo Spirito Santo causa in noi. L’effetto interiore consiste nella verità senza finzione, cioè non pretendere di mostrare esternamente qualcosa di contrario a quanto si possiede interiormente. Per questo dice ‘in caritatem non ficta’. E il motivo è che, come dice Sap 1, 5, ‘il santo Spirito, che ammaestra, rifugge dalla finzione’. Quindi mostra come ci si deve comportare in quelle cose che riguardano la sincerità della bocca, essendo veraci; e perciò dice ‘in verbo veritatis’, cioè dicendo e predicando cose vere” [263].
Con una fondamentazione che questa volta non è più filosofica ma squisitamente scritturistica, viene dunque espresso in modo chiaro il rapporto tra la virtù dell’affabilità e quella della veracità. Della suavitas (la cui precisa traduzione ci sembra essere proprio “affabilità”) e dellaveracitas la radice è poi indicata nella carità. Non più solo virtù sociali dell’umana convivenza, ma frutti dello Spirito Santo che opera nel cristiano[264].
Prima di tornare sull’affabilità come frutto dello Spirito Santo, sarà tuttavia utile descrivere i rapporti tra questa virtù e la temperanza.
Nelle questioni 141-169 della Secunda Secundae san Tommaso affronta lo studio della temperanza, virtù che ha lo scopo di moderare l’attrattiva dei piaceri e di rendere capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati, assicurando il dominio della volontà sugli istinti e mantenendo i desideri entro i limiti dell’onestà[265]. Tra le parti potenziali di questo virtù cardinale, l’Aquinate tratta le virtù della mitezza e della clemenza: mentre quest’ultima è volta a moderare il castigo con il quale si punisce una persona colpevole di un torto, la mitezza frena l’impeto della passione dell’ira:
“L’ira infatti per la sua virulenza, che viene moderata dalla mansuetudine, impedisce in sommo grado che la ragione giudichi liberamente della verità. Di conseguenza, è soprattutto la mansuetudine a rendere l’uomo padrone di sé” [266].
La mitezza è pertanto in rapporto con l’affabilità soprattutto poiché ha a che fare con il dominio di sé, utile a moderare anche il vizio della litigiosità. L’affabilità di fatto presuppone il dominio di sé e l’esercizio della mansuetudine. San Tommaso, a conclusione della questione sulla mansuetudine, aggiunge un ulteriore aspetto di somiglianza o intersezione tra l’area di questa virtù e quella dell’affabilità; la considerazione si trova nella risposta a un’obiezione circa il rapporto della mansuetudine e della clemenza con la misericordia e con la pietà.
“La misericordia e la pietà si confondono con la mansuetudine e con la clemenza in quanto concorrono al medesimo effetto, che è quello di evitare il male del prossimo. Si distinguono tuttavia tra loro per i motivi che le ispirano. Infatti la pietà allevia il male del prossimo per il rispetto verso qualche superiore, per esempio Dio o i genitori, mentre la misericordia, come si è visto sopra (q. 30, a. 2) cerca di alleviare il male del prossimo perché uno se ne addolora come di un male proprio: il che deriva dall’amicizia (provenit ex amicitia), che fa godere e soffrire delle medesime cose. La mansuetudine, invece, produce l’effetto indicato smorzando l’ira, che spinge alla vendetta”[267].
La mansuetudine viene dunque distinta dalla misericordia proprio per il motivo differente che la anima; non è detto che l’amicitia, qui menzionata come movente della misericordia verso chi sta soffrendo, sia da identificare esattamente con l’affabilità, anche perché in altri luoghi, dove intende riferirsi senza dubbio a questa virtù, san Tommaso è solito menzionarla come sinonimo accanto ad amicitia. Il riferimento ai “dolori” del prossimo, invece, fa ricordare per contrasto la risposta al dubbio se l’affabilità sia da ascrivere tra le parti della giustizia o tra quelle della temperanza. La risposta dell’Aquinate nella q. 114 era stata la seguente
“La temperanza ha il compito di tenere a freno i piaceri sensibili. Invece questa virtù [l’affabilità] si interessa della gioia del convivere umano, la quale proviene dalla ragione, per il fatto che uno tratta l’altro in modo conveniente. E questa gioia non è necessario tenerla a freno, come se fosse dannosa”[268].
Pare dunque, con la mansuetudine, di non trovarsi più nell’ambito delle virtù dell’uomo in quanto animale sociale, ma in quello, tutto interiore alla persona, della moderazione delle passioni. Nel contempo, la definizione classica di questa virtù mostra il riflesso sociale immediato che essa possiede, come si vede per esempio in questa descrizione della mansuetudine infusa come “virtù morale soprannaturale che previene e modera l’ira, sopporta con pazienza le debolezze del prossimo e lo tratta benignamente”[269].
L’Aquinate menziona invece esplicitamente l’affabilità a proposito di un’altra delle parti potenziali della temperanza, cioè la modestia, che tratta nelle questioni 168-169. La modestia è la virtù che modera gli appetiti in quelle passioni che non sono forti come i piaceri sensibili; riguarda non solo le azioni esterne ma anche quelle interiori, cioè tutti i movimenti e atteggiamenti minori del corpo e dello spirito che richiedono autodominio, in materie secondarie[270]. La modestia modera per esempio il comportamento esterno e l’abbigliamento, per renderli capaci di manifestare l’interiorità della persona, orientandola a favorire la convivenza sociale; esiste pertanto un rapporto con l’affabilità, che il Dottore Angelico analizza nel seguente modo:
“I moti esterni sono l’indice delle disposizioni interiori, che sono determinate soprattutto dalle passioni (…). E così la disciplina dei moti esteriori si può ridurre alle due virtù di cui parla il Filosofo nell’Etica. Tali moti, infatti, in quanto ordinano in nostri rapporti con gli altri sono moderati dall’amicizia o affabilità, la quale ha il compito di partecipare con le parole e con i fatti alle gioie e ai dolori delle persone con le quali conviviamo. In quanto invece sono segni delle disposizioni interiori sono moderati dalla veracità, o sincerità, con cui uno si mostra a parole e a fatti quale è interiormente”[271].
Si tratta di un’ulteriore menzione congiunta delle due virtù sociali dell’affabilità e della veracità, considerate in quanto moderatrici delle parole e gesti dell’uomo in rapporto agli altri, e delle parole e gesti in quanto segni delle disposizioni interiori. Nella stessa questione nella quale tratta la modestia, san Tommaso dedica tre articoli anche alla facezia, o eutrapelìa (che può essere chiamata anche buonumore). L’Aquinate colloca questa virtù all’interno della modestia, a differenza di Aristotele, che dedica all’eutrapelìa un capitolo successivo a quelli dedicati alla veracità e alla cortesia: queste tre virtù regolano secondo lo Stagirita i rapporti reciproci di parole e azioni tra persone nella vita sociale, seri o dilettevoli[272]. San Tommaso la definisce come la virtù che regola gli atti umani nel gioco e nello scherzo, ricordando che “per lenire la fatica dell’anima bisogna ricorrere a un piacere, interrompendo la fatica delle occupazioni di ordine razionale”[273]. Bisogna in primo luogo far sì che questo piacere non venga cercato in atti turpi o dannosi, poi si deve evitare che l’anima perda del tutto la sua gravità, e da ultimo si deve badare che il divertimento sia adatto alle persone, al tempo e al luogo dove ci si trova; la virtù dell’eutrapelìa o buonumore serve a ordinare tutte queste cose secondo la ragione, e rientra nella modestia siccome fa evitare gli eccessi.
In chiusura della questione, san Tommaso si domanda se sia possibile peccare per difetto contro il buonumore, e risponde positivamente: chi pecca in questo senso è chiamato duro e maleducato. E’ pur vero che la convivenza civile richiede una certa austerità, ma questa virtù richiede anch’essa di essere moderata:
“La virtù dell’austerità non esclude tutti i divertimenti, ma solo quelli esagerati e disordinati. Essa quindi rientra nell’affabilità, che il Filosofo denomina amicizia; oppure rientra nell’eutrapelìa, o giovialità”[274].
In questa presentazione resta centrale, come si vede, il rapporto interpersonale, che dona quindi una chiara dimensione sociale al buonumore. Si può accennare per inciso a un’altra dimensione sottintesa alle virtù che regolano parole e gesti nelle materie dilettevoli (affabilità e buonumore): esse sono in rapporto con la gioia, o perché tendono a suscitarla, o perché si mettono in sintonia con essa quando la scoprono nel prossimo. Questa gioia è lungi dall’essere un accessorio decorativo della virtù. Al contrario, secondo l’Aquinate “non sarà perfettamente giusto secondo la virtù se non colui che compie le opere della giustizia con gioia e diletto (…). Dio approva e ricompensa non colui che dà soltanto, ma colui che dà con gioia, non con tristezza e controvoglia”[275].
Il commento di san Tommaso a Mt 11, 29 (“imparate da me che sono mite e umile di cuore”) offre uno spunto che consente di considerare nuovamente il ruolo della mitezza nella vita cristiana:
“Cosa significa ‘imparate da me che sono mite e umile di cuore’? In realtà, tutta la legge nuova si riassume in due cose: la mitezza e l’umiltà. Grazie alla mitezza, l’uomo si comporta in modo ordinato nei confronti del prossimo (…), grazie all’umiltà, nei confronti di sé stesso e di Dio”[276].
La mitezza non si riduce quindi per san Tommaso soltanto all’atto della virtù morale della mansuetudine, parte potenziale della temperanza; il discorso è più ampio e si ricollega al tema biblico dei “miti”, cioè coloro che sono docili alla volontà di Dio, che vengono lodati dal Signore nelle beatitudini, proferite nel Discorso della Montagna: “beati i miti, perché erediteranno la terra”[277]. L’intera Legge Nuova si riassume nell’imitazione, nell’identificazione con Cristo mite e umile di cuore, nel senso più ricco dell’espressione: Cristo Servo sofferente, che obbedisce alla volontà del Padre, partecipa della natura umana e ne ottiene la redenzione.
All’impegno dell’uomo per ottenere la virtù si associa inseparabilmente l’azione della grazia, che opera mediante i doni dello Spirito Santo: è questa la ragione del collegamento istituito da san Tommaso tra le beatitudini e i doni. Nel cammino verso la felicità, spiega l’Aquinate nella questione dedicata ai doni, ci si deve guardare dall’attrazione della “vita voluptuosa”[278], moderando con la virtù le passioni proprie dell’appetito concupiscibile e dell’irascibile. Se la mitezza impedisce un eccesso di passione che sarebbe contrario alla ragione, “il dono dello Spirito Santo lo fa in un modo più eccellente, rendendo l’uomo totalmente tranquillo e libero da esse, secondo la volontà di Dio; perciò la seconda beatitudine dice beati i miti”[279].
La beatitudine della mitezza si potrebbe anche collegare al dono di fortezza, perché è proprio della fortezza vincere la collera e reprimere l'indignazione; il Dottore Angelico la collega invece, seguendo sant’Agostino, al dono di pietà[280], guardando piuttosto al fine di questa beatitudine, che è il rispetto religioso di Dio, cioè un “affetto dolce e devoto nei confronti del Padre e di ogni uomo”[281]. Il dono di pietà è quindi volto anche a favorire la convivenza tra i figli di Dio, che imitano in questo e in tutto la carità del Figlio di Dio fatto Uomo, modello di amore al Padre e di affetto e apertura al prossimo[282]. Il testo che segue sembra essere un riassunto efficace della dottrina dei doni, e in particolare del dono di pietà, che è stata per sommi capi riassunta:
“Il dono di pietà anima con il suo soffio, ispirato da Dio, tutte le virtù vincolate in un modo o nell’altro alla virtù della giustizia (…). Regola tutti i nostri rapporti con i nostri superiori e con i nostri inferiori, senza rigidità né debolezze, senza eccessive familiarità, con una disinvoltura fraterna e gioiosa che ci consente di convivere con gli uomini con il sorriso di Dio. Le altre virtù annesse alla giustizia, l’obbedienza, il rispetto, la venerazione, l’affabilità e l’amicizia, che rendono tanto gradevole la vita sociale, sono tutte attraversate, nei santi, dalla bontà divina, che risplende attraverso di essi come segno autentico che sono veri discepoli di Cristo, inabitati dallo Spirito di Dio”[283].
San Tommaso prosegue la riflessione sui doni dello Spirito Santo, facendo corrispondere a ciascuno di essi alcuni dei frutti elencati da san Paolo nella lettera ai Galati: “amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità”[284]. Conviene precisare che per san Tommaso queste suddivisioni non sono qualcosa di rigido e sistematico, come del resto non lo sono nell’elenco paolino: le beatitudini e i frutti non rappresentano nuove categorie di abiti, ma semplicemente gli atti che derivano dalle virtù e dai doni. La parola “frutto” rimanda sia al fatto che questi atti umani sono prodotto del seme divino dello Spirito Santo, sia alla realtà che esso verrà colto dall’uomo quando questi raggiungerà il suo fine ultimo, la beatitudine eterna: “ne deriva che le nostre opere, in quanto effetti dello Spirito Santo operante in noi, si presentano come frutti; però nella misura in cui esse sono ordinate al loro fine che è la vita eterna, si presentano piuttosto come fiori”[285].
Primo tra questi frutti, secondo l’elenco paolino, è evidentemente la carità, che è la presenza dello Spirito Santo in noi; san Tommaso unisce poi alla carità la pace e la gioia, che costruiscono il buon ordinamento interiore del cristiano, mentre pazienza e longanimità caratterizzano il suo atteggiamento di fronte alle avversità. Per quanto concerne le relazioni interpersonali, l’Aquinate spiega:
“Per quanto riguarda il rapporto con il prossimo, la mente dell’uomo è ben disposta innanzitutto per la volontà di fare il bene: a questo tende la bontà; in secondo luogo, per la realizzazione pratica del bene: a questo è orientata la benignità, poiché sono chiamati benigni coloro che il buon fuoco dell’amore rende fervorosi per fare il bene al prossimo; in terzo luogo, per quanto riguarda il sopportare con serenità il male che è inflitto loro dal prossimo: a questo tende la mitezza, che modera l’ira”[286].
La bontà dispone quindi la mente dell’uomo a fare il bene o, in altre parole, produce la volontà di fare il bene; la benignità rende capaci di realizzare di fatto il bene, apportando il fervore; e la mitezza dispone a sopportare il male che il prossimo ci infligge. Questi tre frutti corrispondono dunque al dono di pietà, tutti considerati come atti che realizzano e rendono visibile la carità, prodotta dalla presenza e dall’azione dello Spirito Santo nell’anima del cristiano[287]. Tra questi atti, senza pretendere un rigore terminologico che sarebbe eccessivo in questo contesto, si può dire che “l’affabilità è frutto dello Spirito Santo, che conosce, muove e trasforma il cuore umano” [288].
La benignitas è presentata in altri luoghi da san Tommaso con tratti che la mettono in stretto rapporto con la virtù dell’affabilità e con l’azione dello Spirito Santo nell’anima del cristiano. E’ quanto appare nel commento dell’Aquinate all’esortazione di san Paolo a Tito che trascriviamo per esteso di seguito:
“Ricorda loro di (…) di evitare le contese, di esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini. Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. Quando però si sono manifestati la bontà (benignitas) di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini (humanitas), egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna”[289].
Il commento alla prima parte di questo passo paolino presenta i vizi da evitare “in exterioribus actibus”, che descrive nel modo seguente:
“[San Paolo] invita a ‘non essere litigiosi’. Si deve sapere infatti che tre sono i generi di uomini: a uno appartengono i virtuosi, e agli altri due i viziosi; alcuni non si rattristano qualsiasi parola ascoltino, e questi sono adulatori; altri si ribellano a qualsiasi cosa si dica loro, e sono i litigiosi; contro di questi si parla in questo passo. Perciò 2Tim 2, 24 dice che ‘un servo del Signore non deve essere litigioso ma mite con tutti’ (…). Ma colui che sta nel mezzo, e a volte si rallegra per le parole, a volte se ne rattrista, questi è il virtuoso, come dice 2 Cor 2: ‘se vi ho rattristati, non me ne pento etc.’. Quando prosegue e raccomanda di essere invece ‘modesti’, indica come si devono comportare nel fare il bene. La modestia è infatti la virtù per la quale uno in ogni gesto esteriore usa modi che non offendano alcuno, secondo Fil 4, 5: ‘la vostra modestia sia nota a tutti gli uomini’ (…). Infatti, quanto più qualcuno è impetuoso negli affetti interiori, tanto più difficilmente saprà frenare quelli esteriori, e tale è soprattutto l’affetto dell’ira. E contro questa segnala la mitezza, che modera le passioni dell’ira. Perciò dice ‘mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini’ e ‘imparate da me che sono mite e umile di cuore (Mt 11, 29)”[290].
L’Apostolo raccomanda dunque a Tito di vivere la benignità, la modestia e la mitezza, virtù accomunate dal fatto di regolare gli “atti esterni” del cristiano. Ma il riferimento a Mt 11, 29 fa intuire che la raccomandazione va aldilà di un semplice codice di condotta esterna ispirato al rispetto e alla cortesia. Si tratta di imitare il comportamento del Figlio di Dio fatto Uomo per amore degli uomini, per redimere l’umanità. E il commento dell’Aquinate al testo paolino prosegue e descrive il motivo della redenzione:
“La carità di Dio è la causa della nostra salvezza (…). E l’affetto interiore della carità è indicato nella benignità, che significa bona igneitas; il fuoco infatti significa l’amore (…). La benignità è pertanto l’amore interiore che trabocca all’esterno in atti buoni. E questo fu dall’eternità in Dio, poiché il suo amore è causa di tutte le cose”[291].
Il fuoco dello Spirito Santo, la benignità di Dio, è causa dell’incarnazione del Figlio e della redenzione, e ogni atto umano è chiamato ad essere ispirato da questa bona igneitas, che porta ad imitare gli atti e le virtù di Cristo.
In una questione della Tertia pars, san Tommaso si domanda se non sarebbe stato più conveniente che il Figlio di Dio, una volta fatto uomo, avesse svolto una vita solitaria. Contro tale ipotesi, egli cita l’autorità della Scrittura: “per questo è apparso sulla terra e ha vissuto tra gli uomini”[292]. La soluzione della questione è basata sui motivi dell’incarnazione, che sono ridotti a tre principali:
“In primo luogo, Cristo venne al mondo per manifestare la verità (…). In secondo luogo, per liberare gli uomini dal peccato (…). In terzo luogo, per far sì che attraverso di lui avessimo accesso a Dio (…). E così fu conveniente che convivesse con gli uomini con familiarità, per dare agli uomini la fiducia perché potessero accedere a lui”[293].
Il Figlio di Dio si è fatto Uomo, in altre parole, per parlare un linguaggio di parole e gesti comprensibile all’uomo e far sì che ogni persona, confortata dall’atteggiamento di apertura amichevole e veritiera del Redentore, potesse accedere alla conoscenza della Verità e dell’Amore di Dio. Non si può affermare che in questo passo si trovi una menzione esplicita delle virtù sociali della veracità e dell’affabilità; nel contempo, è invece chiaro nel Vangelo l’atteggiamento di Gesù di fronte a coloro che non fanno corrispondere veracemente le intenzioni con le parole e i gesti[294]. Tuttavia, si coglie qui forse il fondamento dell’importanza di entrambe le virtù, che si armonizzano in quella qualità attraente che è la franchezza, atteggiamento aperto e sincero che ha caratterizzato l’Umanità di Cristo e che deve essere tipico di ogni apostolo, per far sì che molti uomini si facciano coraggio e si avvicinino con fiducia a Dio, scoprendolo come Padre[295].
1. Nella Sacra Scrittura non esiste un vocabolo unico per indicare la virtù sociale dell’affabilità; aspetti di questa virtù sono segnalati da termini quali benignità, bontà, clemenza, mitezza, modestia, etc.; il senso di ciascuna di queste parole varia a seconda del contesto biblico nel quale sono collocate.
2. A grandi linee, si può dire che esistono alcuni punti di riferimento principali nel Vangelo per lo studio di questa virtù, che sono Mt 5, 5 (“beati i miti perché erediteranno la terra”), Mt 11, 29 (“imparate da me che sono mite e umile di cuore”) e Gal 5, 22 (“Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”). Il corpus paulinum offre altri interessanti spunti nei diversi elenchi delle virtù proprie del cristiano (soprattutto 2Cor 6, 6; Col 3, 12; Tt 3, 2; Fil 4, 5; 2Tim 2, 24–25). Sia la lettera ai Galati sia gli altri passi paolini trovano sempre chiaramente nella carità il fondamento di questa come di ogni altra virtù.
3. Nel pensiero classico sono importanti per la virtù dell’affabilità l’idea aristotelica di philia e quella ciceroniana di caritas generis humani, collegata alla virtù cardinale della giustizia. Aristotele presenta questa virtù sociale insieme alla veracità, e non la definisce con un termine preciso. La colloca al giusto mezzo tra il litigio e l’adulazione, sottolineando il fatto che l’uomo è animale sociale e pertanto è per lui conveniente convivere con i suoi simili con una certa “gioia”. Concetti aristotelici collegati in qualche modo con questa virtù sono l’amicizia (philia), la benevolenza (eunoia) e la filantropia.
4. A partire da Cicerone, sulla scia della sistematizzazione della morale realizzata dagli stoici, questa virtù comincia ad essere considerata parte della giustizia, e viene chiamata comitas,facilitas o adfabilitas. Il discorso resta comunque in sintonia con la concezione aristotelica, soprattutto perché l’idea classica di giustizia non si oppone a quella di amicizia, ma entrambi i concetti sono in stretto rapporto e si completano a vicenda.
5. Nella patristica si approfondisce in modo particolare l’interconnessione tra diverse virtù sociali, che si nota nei rapporti che esistono tra affabilità e veracità (nell’ambito della virtù cardinale della giustizia) e tra affabilità e mitezza (nell’ambito della virtù cardinale della temperanza). Tutte le virtù sociali sono viste dai Padri come frutti della carità, cioè della presenza e dell’azione dello Spirito Santo nell’anima, che diventa visibile in ogni atto compiuto dal cristiano.
6. Sant’Agostino mette in rapporto la mitezza (intesa secondo la beatitudine dei miti e quindi affine all’affabilità) con il dono di pietà e con la venuta del regno di Dio sulla terra; quest’ultima è concepita sia come giustizia terrena sia – soprattutto – come compimento finale della giustizia nel Regno definitivo.
7. Affabilità, veracità e franchezza (parresia) sono presentate dai Padri come qualità importanti dell’apostolo, efficaci per attrarre a Dio il prossimo e per vivere la correzione fraterna.
8. San Tommaso riprende e sistematizza la tradizione che l’ha preceduto, fondamentalmente in due modi:
a) accoglie la concezione aristotelica dell’affabilità come virtù sociale, che regola cioè gli atti esterni dell’uomo e che è giusto mezzo tra litigiosità e adulazione;
b) afferma che questa virtù aristotelica si può chiamare affabilitas ed è parte potenziale della virtù della giustizia (seguendo la morale stoica).
9. L’Aquinate studia la collocazione di questa virtù in rapporto alla virtù teologale della carità e nel sistema della virtù cardinali, ampliando la riflessione nelle linee seguenti.
a) Affabilità e veracità, parti potenziali della virtù cardinale della giustizia, sono virtù proprie dell’uomo in quanto animale sociale; in questo senso, con il termine affabilitas si cerca di rendere l’accezione più generale della philia greca e in particolare aristotelica, cioè l’apertu-ra nativa dell’uomo alla socievolezza, al rapporto franco, sincero e gradevole con il prossimo, che caratterizza la natura umana; tale apertura si manifesta innanzitutto nel linguaggio, cioè nelle parole e nei gesti che mostrano agli altri l’interiorità della persona.
b) Il rapporto tra affabilità e amicizia viene approfondito in due sensi: da una parte il Dottore Angelico fa subire alla nozione di philia aristotelica un intimo cambiamento, definendo la carità come amicizia con Dio; dall’altra, la caratteristica propria dell’uomo di communicare con i suoi simili diventa innanzitutto capacità di entrare in comunione (societas) con Dio; in questa potenzialità dell’uomo si radica il mandato di amare il prossimo e quindi di trattarlo con franchezza, affabilità e sincerità.
c) Affabilità e mitezza, intendendo quest’ultima come parte potenziale della virtù cardinale della temperanza, sono in relazione perché entrambe moderano l’ira, vizio che mina i rapporto interpersonali e che si controlla grazie al dominio di sé; l’affabilità è anche collegata con altre parti della temperanza, che sono la modestia e il buonumore (eutrapelìa).
10. Dove tuttavia san Tommaso arricchisce in modo sommo la riflessione teologica su questa e sulle altre virtù sociali è nello studio dei doni e dei frutti dello Spirito Santo, che segue e completa quello analogo svolto da sant’Agostino. L’interrelazione tra virtù, doni, frutti e beatitudini si presenta nel caso dell’affabilità nel modo seguente:
a) Alla virtù cardinale della giustizia (e quindi alle sue parti potenziali) si collega il dono di pietà, che porta il cristiano a vivere la carità filiale nei confronti di Dio Padre, e a trattare con carità fraterna il prossimo.
b) Gli atti della giustizia, quando sono animati dall’interno dallo Spirito Santo (che agisce con i doni), diventano frutti della carità e sono chiamati in questo senso “frutti dello Spirito Santo”. Tra i frutti, quelli che hanno a che fare maggiormente con i rapporti interpersonali sono la benignità, la bontà e la mitezza: essi sono il volto della carità immediatamente visibile dal prossimo. Il discorso non è comunque da intendersi in modo sistematico, né il vocabolario va interpretato rigidamente.
c) La mitezza è in rapporto con la giustizia anche in base alla beatitudine dei miti, che sono indicati da Gesù come coloro che “erediteranno la terra”, e cioè faranno sì che si instauri il regno di Dio nel mondo e, definitivamente, “in patria”, cioè alla fine dei tempi. Le virtù collegate con la giustizia hanno in questo senso un ruolo particolare per la crescita del regno di Dio, cioè per l’azione apostolica del cristiano.
11. Alcuni interessanti approfondimenti si potrebbero svolgere circa i seguenti temi:
a) rapporto tra affabilità e carità politica;
b) rapporti tra affabilità, allegria e buonumore nella vita cristiana;
c) insegnamento di Gesù circa l’ipocrisia, la sincerità di cuore e la correzione fraterna.
I. San Tommaso D’Aquino
Scriptum super quattor libris Sententiarum Magistri Petri Lombardi
Summa Theologiae.
Lectura super Mattheum [Reportatio Leodegarii Bissuntini]
Lectura super Iohannem. Reportatio
Expositio et lectura super Epistolam ad Corinthios
Expositio et lectura super Epistolam ad Galatas
Expositio et lectura super Epistolam ad Philippenses
Expositio et lectura super Epistolam Colossenses
Expositio et lectura super Epistolam ad Titum
Sententia libri Ethicorum
Sententia libri Politicorum.
Sermo in Puer Iesu.
II. Padri della Chiesa
Sant’Ambrogio
De Officiis (PL 16)
Epistolae (PL 16).
San Giovanni Crisostomo
Omelie sul Vangelo di san Matteo (PG 57-58).
Omelie sugli Atti degli Apostoli (PG 61).
Omelie sulla prima lettera ai Corinzi (PG 61)
Commento alla lettera ai Galati (PG 62).
Omelie sull’Epistola ai Colossesi (PG 62).
Catechesi Battesimali (PG 49)
Trattato sulla vanità e sull’educazione dei figli (il trattato non è raccolto in PG).
San Girolamo
De viris illustribus (PL 23).
Dialogus contra Pelagianos (PL 23).
Commento alla lettera ai Galati (PL 26).
Commento alla lettera agli Efesini (PL 26).
Epistulae (PL 22).
Sant’Agostino
Confessiones (PL 32)
Commento al Salmo 103 (PL 37);
Commento al Vangelo di Giovanni (PL 35),
Commento all’Epistola ai Parti di san Giovanni (PL 35);
Commento alla lettera ai Galati (PL 35);
Il Discorso del Signore sulla Montagna (PL 34)
III. Altre fonti classiche
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ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986, 2 voll., testo greco a fronte, introduzione, traduzione e note a cura di Marcello Zanatta.
CICERONE, De Officiis, Mondadori, Milano 1991, testo latino a fronte, introduzione, traduzione e note a cura di Dario Arfelli.
CICERONE, Laelius de amicitia, Newton, Roma 1993, traduzione di Emma Maria Gigliozzi.
CICERONE, De finibus bonorum et malorum.
MACROBIO, Commentaire au songe de Scipion, Les Belles Lettres, Parigi 2003, testo latino a fronte, traduzione francese a cura di Mireille Armisen Marchetti.
IV. Monografie e articoli
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ABBÀ, G., Quale impostazione per la filosofia morale?, Las, Roma 1996.
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[2] GIOVANNI PAOLO II, Udienza, 7.7.1993, in “Insegnamenti” XVI/2 (1993) 34-44.
[3] Mt 11, 29.
[4] BENEDETTO XVI, Discorso, Convegno Ecclesiale Nazionale Verona, 19.10.2006.
[5] CEI, La verità vi farà liberi. Catechismo degli adulti, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1995, n. 833.
[6] DE CEA, E., Affabilità, in L. BORRIELLO–E. CARUANA–M.R. DEL GENIO–N. SUFFI (dir.), “Dizionario di mistica”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 56.
[7] DE CEA, E., Affabilità, in L. BORRIELLO–E. CARUANA–M.R. DEL GENIO–N. SUFFI (dir.), “Dizionario di mistica”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 56.
[8] Cfr. CONTE, G.B., Dizionario della Lingua Latina, Le Monnier, Firenze 2000.
[9] La Sacra Bibbia, Traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, SEI, Torino 1993.
[10] Fil 4, 5.
[11] Sent. Ethic., IV, 14, 12: “quel giusto mezzo che, essendo privo di nome, noi possiamo chiamare affabilità”.
[12] GIOVANNI PAOLO II, Omelia, 11.2.1981, in Insegnamenti, IV/1 (1981) 278-282.
[13] Anche se verranno citati nuovamente nei luoghi più significativi, si può anticipare che gli studi di riferimento per questo capitolo sono stati essenzialmente i seguenti: MENNESSIER, A.-I., Douceur, in M. VILLER (dir.), “Dictionnaire de Spiritualité”, III, Paris 1957, col. 1674-1685; SPICQ, C., Bénignité, Mansuétude, Douceur, Clémence, “Revue Biblique” t. 54 (1957) 321-339; LEIVESTAD, R., The Meekness and Gentleness of Christ (2Cor 10, 1), “New Testament Studies” XII (1966) 156-164; SPICQ, C. Teologia moral nel Nuevo Testamento, Paris 1965 (si cita dall’edizione spagnola, Rialp, 2 voll., Pamplona 1973).
[14] Etica Nicomachea, IV, 12, 1126b10 – 1127a15; come si vedrà, in altro luogo Aristotele la chiama genericamente philia.
[15] Etica Nicomachea, IX, 5, 1166b5 – 1167a25.
[16] BEHM, J., Eunoia, in KITTEL, F., “Grande Lessico del Nuovo Testamento”, VII, Paideia, Brescia 1984, col. 1095-1100.
[17] Si può notare, per inciso, che nel Nuovo Testamento l’estensione del termine pare allargarsi, dal momento che ogni cristiano è chiamato a comportarsi con devozione nei confronti del suo Signore, Gesù Cristo. Pur non trattandosi esattamente di un rapporto “servile”, la parola rimanda comunque a una relazione di questo tipo; cfr. sull’argomento SPICQ, C. Teologia moral nel Nuevo Testamento, tomo II, pp. 716 e specialmente nt. 169.
[18] Benedetto XVI ha recentemente sottolineato l’interesse dell’indagine sui rapporti della cultura e della lingua greca con la Sacra Scrittura, con parole che vale la pena di ricordare: “L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso”. Riferendosi poi in particolare alla versione greca dell’AT dei LXX, il Santo Padre ha ricordato come essa sia “una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo” (BENEDETTO XVI, Discorso ai rappresentanti della Scienza, Regensburg, 12 settembre 2006).
[19] Emblematica, tra i numerosi altri esempi, è la benignità attribuita a Dio in Sal 100, 5: “buono è il Signore, eterna la sua misericordia”; cfr. anche Sal 25, 8; Sal 34, 9; etc.
[20] Basti qui citare, tra le 11 occorrenze del termine nell’AT, la celebre descrizione di Mosè fatta in Num 12, 3 come mitissimum (praus), dove la “mitezza” non può non includere evidentemente anche la resistenza alla sofferenza. Si può inoltre notare che questo termine greco traduce spesso l’ebraico anawim, che caratterizza gli umili e i poveri, coloro che soffrono perché oppressi, che saranno oggetto di una delle Beatitudini di Gesù Cristo.
[21] Interessa riscontrare l’affinità di questo versetto con Gc 3, 13, dove si troverà un esplicito riferimento alla mitezza nella conversazione, assai vicina all’affabilità. Cfr. anche Sir 6, 5: “una bocca amabile moltiplica gli amici, un linguaggio gentile attira i saluti”. E’ stato fatto notare come il Siracide sia forse il libro dell’AT nel quale si trovino più frequenti accenni a virtù relative alla vita sociale.
[22] Sir 4, 7: “Porgi l’orecchio al povero e rispondigli al saluto con affabilità”.
[23] Si veda, per esempio, Sal 86, 5, dove si trovano accostati i termini epieicheia e krestotes. Non si può tuttavia affermare che il termine sia usato rigidamente, come si vede in Sap 2, 19: “Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti, per conoscere la mitezza (epieicheia) del suo carattere”.
[24] Est 3, 13.
[25] Cfr. SPICQ, Bénignité, Mansuétude, Douceur, Clémence, p. 338.
[26] Cfr. SPICQ, Teologia moral nel Nuevo Testamento, tomo II, p. 886, nt. 129
[27] Cfr. SPICQ, Bénignité, Mansuétude, Douceur, Clémence, p. 330, nt. 1.
[28] Numerosi riferimenti bibliografici si trovano in SPICQ, C. Teologia moral nel Nuevo Testamento, Appendice IX: “El rostro inmaculado del Amor en la Iglesia cristiana”, pp. 859-899. A quelle pagine si rifanno molte delle considerazioni che si stanno qui riassumendo.
[29] Cfr. MENNESSIER, Douceur, col. 1674. Cfr. Zc 9,9 (“Ecco, a te viene il tuo re, egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”), che sarà citato in Mt 21,5 e in Gv 12,15.
[30] Cfr. Fil 2,8 e Eb 2,11-14.
[31] Per un esauriente studio del versetto paolino, si veda l’articolo sopra citato di LEIVESTAD,The Meekness and Gentleness of Christ (2 Cor 10, 1).
[32] Mt 11,29. Il breve elenco, che si propone senza alcuna pretesa di essere esaustivi, di luoghi dei Vangeli dove si riscontra l’affabilità di Cristo parte dai suggerimenti di BORTONE, E., Affabilità, in E. ANCILLI (dir.), “Dizionario enciclopedico di spiritualità”, I, Città Nuova, Roma 1990, pp. 35s.
[33] Cfr. Gv 3, 1-21.
[34] Cfr. Lc 19, 1-10.
[35] Cfr. Gv 4, 7-42
[36] Cfr. Mc 10, 13-14 e Lc 18, 17.
[37] Cfr., per esempio, i colloqui narrati in Lc 17, 11-19.
[38] Cfr. Mt, 19, 13-15; Mc 10, 17; Lc 18, 18.
[39] Cfr. Lc 24, 13-35.
[40] BORTONE, Affabilità, p. 36.
[41] Col 3, 12-15; il passo termina con un riferimento alla gratitudine, anch’essa, come l’affabilità, una virtù sociale; da sottolineare anche l’invito a superare le contese, e a perdonarsi vicendevolmente; queste virtù sono indicate tutte come collegate strettamente alla carità.
[42] 1Tim 6, 11.
[43] 2Tim 2, 24.
[44] Tt 3, 2.
[45] Altri esempi sono: 2Cor 6, 6, dove si trova un elenco delle qualità dell’apostolo, attraverso le quali è possibile riconoscerlo: “purezza, sapienza, pazienza, benevolenza (krestotes), spirito di santità, amore sincero”; e, fuori dal corpus paulinum, 1 Pt 2, 18; Gc 3, 17. Per l’analisi di questi e di altri luoghi collegati, si veda SPICQ, Teologia moral nel Nuevo Testamento, II, pp. 878-886.
[46] Gal 5, 22.
[47] Per il termine agathosyine, si può vedere SPICQ, Teologia moral nel Nuevo Testamento, II, p. 893, nt 176, dove esso viene messo in rapporto con l’ospitalità.
[48] Così afferma MENNESSIER, Douceur, col. 1676.
[49] Missale Romanum, Dominica infra Octavam Nativitatis Domini (Oratio Collecta).
[50] Sir 3, 3-7. 14-17; il Messale lo fa precedere dal titolo: “qui timet Dominum honorat parentes”.
[51] Col 3, 12-21: il titolo è: “de vita domestica in Domino”.
[52] Cfr. Mt 2, 13-23, Lc 2, 22-40; Lc 2, 41-52.
[53] Bar 3, 38. Il testo del Messale recita: “Deus noster in terris visus est, et cum hominibus conversatus est”. Si tornerà su questo passo nel paragrafo 4.9.
[54] La bibliografia sull’amicizia nel mondo classico sembra troppo ampia per essere qui riassunta; basti citare alcuni titoli che abbiamo preso come spunto, e che presentano riferimenti a Platone e Aristotele che saranno significativi per gli approfondimenti dei capitoli successivi della presente ricerca: PHELAN, G. B., Justice and Friendship “The Thomist” 5 (1943) 153-170; JONES, L. G., Theological Transformation of Aristotelian Friendship in the Thought of St. Thomas Aquinas, “The New Scholasticism” 61 (1987) 373-399; McENVOY, J. Amitié, attirance et amour chez St Thomas d’Aquin, “Revue Philosophique de Louvain” 91 (1993) 383-407; MANZANEDO, M. F., La amistad según Santo Tomás, “Angelicum” 71/3 (1994) 371-426; questi articoli sono serviti da guida per la scelta dei brani di Platone e Aristotele citati. Per un inquadramento generale si è fatto riferimento a REALE, G., Storia della filosofia antica, II, Milano 81991.
[55] Lo riassume Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 6: “Delle tre parole greche relative all'amore – eros, philia (amore di amicizia) e agape – gli scritti neotestamentari privilegiano l'ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini”.
[56] Per un’introduzione generale a questi temi, si veda REALE, Storia della filosofia antica, II, pp. 261-269; una bibliografia più dettagliata e specialistica è quella presentata nel volume REALE, G., Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 191996, in particolare nel capitolo XV (“Eros e protologia nel Liside, nel Simposio e nel Fedro), pp. 454-494.
[57] PLATONE, Gorgia, 487a. Si citano i testi di Platone nella traduzione italiana pubblicata da REALE, G., (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000.
[58] La questione sulla veritas è S.Th., II-II, q. 109, mentre quella sull’affabilitas è II-II, q. 114. Cfr. WHITE, K., Affabilitas and veritas in Aquinas: The Virtues of Man as Social Animal, “The Thomist” (1993) 641-653. Come si vedrà, questo articolo sarà ripreso più volte lungo la presente ricerca, ma sembra utile segnalarlo fin d’ora per gli interessanti riferimenti alla cultura classica che presenta.
[59] PLATONE, Repubblica, VI, 485c-486b.
[60] PLATONE, Protagora, 337b.
[61] PLATONE, Leggi, I 631c; e in Gorgia, 508a, si afferma in modo ugualmente chiaro che “cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non invece disordine o dissolutezza”. Secondo Reale, la pagina paradigmatica in cui Platone fissa le virtù cardinali è quella della Repubblica IV, 441d-442d; si confronti REALE, Storia della filosofia antica, II, p. 302.
[62] PLATONE, Leggi, III 697b.
[63] Cfr. WHITE, Affabilitas and veritas in Aquinas: The Virtues of Man as Social Animal, pp. 644-645, nota 10.
[64] TRICOT, J., Aristote. L’Étique à Nicomaque, Parigi 1959, p. 381.
[65] Aristotele parla di questa virtù anche in Etica, II, 7, 1108a., descrivendola come giusto mezzo tra l’essere eccessivamente complimentoso e l’essere scontroso; la definisce in questo caso genericamente con il termine philia.
[66] Per un inquadramento generale all’Etica Nicomachea è utile consultare GAUTHIER, R.A.–JOLIF, T. (a cura di), Aristote. L’Étique à Nicomaque, Paris-Louvain 21970, 4 voll.; e le pp. 489-540 del vol. II di REALE, Storia della filosofia antica, a proposito dell’etica e della politica di Aristotele. Nel corso di questa sezione, faremo riferimento alle note a cura di Marcello Zanatta al volume di ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1986, 2 voll., testo greco a fronte (d’ora in avanti, Etica; si citerà seguendo la numerazione dell’edizione Bekker); nel vol. I, p. 514, nt. 3, Zanatta afferma che “questa virtù anonima in italiano potrebbe essere chiamata amabilità o cordialità”. Le altre due virtù sociali trattate qui da Aristotele sono la veracità (c. 13) e la lepidezza (c. 14).
[67] Aristotele parla della stessa virtù anche nell’Etica Eudemia, II, 3, 1221a.
[68] Etica, IV, 12, 1126b.
[69] Etica, IV, 12, 1126b.
[70] Etica, IV, 12, 1127a.
[71] Etica, VIII, 1, 1155a.
[72] A proposito di questo termine sono servite da spunto le profonde osservazioni di GAUTHIER –JOLIF, Aristote. L’Étique à Nicomaque, II, pp. 661-663 e pp. 704-705, dove i commentatori mostrano come, non senza contraddizioni interne, Aristotele giunge a postulare la necessità di amicizia universale.
[73] Etica, VIII, 1, 1155a.
[74] Etica, VIII, 13, 1161b.
[75] Cfr. ARISTOTELE, Politica, I, 6, 1255b.
[76] Etica, IX, 9, 1166 b 30-33. Aristotele tratta della benevolenza anche in Etica Eudemia, IV, 7, 1241a.
[77] GAUTHIER –JOLIF, Aristote. L’Étique à Nicomaque, II, p. 736. Sullo stesso argomento è assai chiaro REALE, Storia della filosofia antica, II, p. 512: “L’amicizia come dono gratuito di sé all’altro è una concezione totalmente estranea ad Aristotele: anche nel suo più alto grado, l’amicizia è intesa come un rapporto di dare e avere che, sia pure a livello spirituale, si deve pareggiare”.
[78] Risulta suggestivo considerare che alcuni affermano che il significato originario della parolaagape sia quello di “salutare amabilmente”; per approfondimenti, si confronti SPICQ,Teología Moral del Nuevo Testamento, II, p. 509, nota 4.
[79] CICERONE, Laelius de amicitia, 8, 26: “Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniungendam”; qui e più avanti si cita la traduzione di Emma Maria Gigliozzi, in CICERONE, L’amicizia, Newton, Roma 1993. Un approfondimento sulle parole greche e latine che fanno riferimento all’amore si trova in PIEPER, J., Las virtudes fundamentales, Madrid 31988: alle pp. 423-429, in un paragrafo del saggio sull’amore intitolato nell’edizione spagnola “El vocabulario amoroso en el latín y en el griego”, Pieper passa in rassegna i diversi significati delle parole latine caritas, dilectio, affectio, studium, etc.
[80] CICERONE, Laelius de amicitia, 27, 100: “amare autem nihil est aliud nisi eum ipsum diligere, quem ames, nulla indigentia, nulla utilitate quaesita”.
[81] Per un inquadramento generale su Cicerone si è fatto riferimento a GENTILI, B.–STUPAZZINI, L.–SIMONETTI, M., Storia della letteratura latina, Laterza, Bari-Roma 1987 nonché all’introduzione di Dario Arfelli all’edizione di CICERONE, De Officiis, Mondadori, Milano 1991 (pp. V-XXIII); qui e più avanti si riporta la traduzione del De Officiis a cura dello stesso Arfelli; a queste fonti si deve la scelta dei brani ciceroniani citati. In generale, si riporterà in nota il testo latino quando si ritenga che sia interessante per la progressiva definizione delle parole relative all’affabilità e ai suoi vizi contrari.
[82] CICERONE, De Officiis, II, 14, 48: “difficile dictu est, quantopere conciliet animos comitas adfabilitasque sermonis. Extant epistolae et Philippi ad Alexandrum et Antipatri ad Cassandrum et Antigoni ad Philippum filium, trium prudentissimorum (sic enim accepimus); quibus praecipiunt, ut oratione benigna multitudinis animos ad benivolentiam alliciant militesque blande appellando [sermone] deleniant”.
[83] Cfr. ARFELLI, D., Introduzione, p. XVI.
[84] CICERONE, Laelius de amicitia, VI, 20: “amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio”; cfr. GENTILI-STUPAZZINI-SIMONETTI, Storia della letteratura latina, p. 225.
[85] CICERONE, De finibus bonorum et malorum, V, 23, 65: “Quae animi affectio suum cuique tribuens atque hanc, quam dico, societatem coniunctionis humanae munifice et aeque tuens iustitia dicitur, cui sunt adiunctae pietas, bonitas, liberalitas, benignitas, comitas, quaeque sunt generis eiusdem. Atque haec ita iustitiae propria sunt, ut sint virtutum reliquarum communia”.
[86] Cfr. PORCELLINI, E., Lexicon totius latinitatis, Bologna 1965 (voce “Benignitas”). Per ulteriori approfondimenti sulla parola latina benignitas, si veda LABORDERIE-BOULON, P., Benignitas. Essai sur la pensée charitable aux temps classiques, “Revue Historique de Droit français et étranger” 26 (1948) 137-144, dove si dimostra come questa sia una nozione che si colloca a metà strada tra diritto e morale, formatasi a Roma attraverso l’incrocio tra la cultura ellenistica, stoica e cristiana: una specie di “equità elegante”, che esorta ad adottare le soluzioni giuridiche più benevole.
[87] CICERONE, De Officiis, III, 5.
[88] CICERONE, Laelius de amicitia, XVII, 66: “Accedat huc suavitas quaedam oportet sermonum atque morum, haudquaquam mediocre condimentum amicitiae. Tristitia autem et in omni re severitas habet illam quidem gravitatem, sed amicitia remissior esse debet et liberior et dulcior et ad omnem comitatem facilitatemque proclivior”.
[89] Cfr. CICERONE, De Officiis, I, 16: si veda sul tema BARRIO MAESTRE, J.M., Logos y polis:la idea aristotélica de ciudadanía, en NAVAL, C. – HERRERO, M. (eds.), Educación y ciudadanía en una sociedad democrática, Ediciones Encuentro, Madrid 2006, pp. 19-48, specialmente le pp. 27-31, che trattano “La amistad política y el decir”.
[90] CICERONE, De Officiis, I, 16: “Homo qui erranti comiter monstrat viam, / quasi lumen de suo lumine accendat facit. / Nihilo minus ipsi lucet, cum illi accendenti”; la citazione proviene da un’opera del poeta e drammaturgo Ennio (239-169 a.C.), che non ci è giunta.
[91] CICERONE, Laelius de amicitia, XXIV, 89: “Molesta veritas, siquidem ex ea nascitur odium, quod est venenum amicitiae, sed obsequium multo molestius, quod peccatis indulgens praecipitem amicum ferri sinit (...). In obsequio autem, quoniam Terentiano verbo lubenter utimur, comitas adsit, adsentatio, vitiorum adiutrix, procul amoveatur”.
[92] Cfr. CICERONE, Laelius de amicitia, XXIV, 90: “Scitum est illud Catonis, ut multa: «melius de quibusdam acerbos inimicos mereri quam eos amicos, qui dulces videantur; illos verum saepe dicere, hos numquam»”.
[93] CICERONE, Laelius de amicitia, XXV, 91: “Sic habendum est nullam in amicitiis pestem esse maiorem quam adulationem, blanditiam, adsentationem; quamvis enim multis nominibus est hoc vitium notandum levium hominum atque fallacium ad voluntatem loquentium omnia, nihil ad veritatem”.
[94] CICERONE, De Officiis, I, 38. Sullo sfondo di queste riflessioni ciceroniane c’è l’analisi della virtù dell’ira compiuta da Aristotele, che si può riscontrare per esempio nell’Etica Nicomachea, IV, 11 1126b.
[95] CICERONE, De Officiis, II, 9: le virtù vengono definite come quelle “quae pertinent ad mansuetudinem morum ac facilitatem”.
[96] Cfr. PIEPER, J., Las virtudes fundamentales, p. 86, che sottolinea l’importanza del diritto romano nella trasmissione di questa idea di giustizia.
[97] PINCKAERS, S., Le fonti della morale cristiana, ARES, Milano 1992, p. 53 (tit. orig. Les sources de la morale chrétienne, Fribourg 1985); si vedano anche le pp. 504-507.
[98] CICERONE, De finibus bonorum et malorum, V, 23, 65: “In omni autem honesto, de quo loquimur, nihil est tam illustre nec quod latius pateat quam coniunctio inter homines hominum et quasi quaedam societas et communicatio utilitatum et ipsa caritas generis humani” (la traduzione è nostra).
[99] Cfr. CICERONE, De Officiis, I, 7.
[100] Cfr. PIEPER, J., Las virtudes fundamentales, p. 170-172.
[101] I passi patristici citati sono stati scelti a partire dai seguenti studi: HEILMANN, A. (a cura di), La teologia dei Padri, Città Nuova, Roma 21982, 4 voll. (edizione italiana a cura di Gaspare Mura; in modo particolare si è fatto riferimento al vol. 3); EDWARDS, M. J. (a cura di), Ancient Christian Commentary on Scripture, ICCS, 1999; si è utilizzata l’edizione spagnola a cura di MERINO, M., La Biblia comentada por los Padres de la Iglesia, Ciudad Nueva, Madrid 2001, voll. 7-8; MENNESSIER, A.-I., Douceur, in M. VILLER (dir.), “Dictionnaire de Spiritualité”, III, Paris 1957, col. 1676-1679 (a proposito di Crisostomo e di Agostino). Per l’inquadramento generale, si è fatto riferimento a BOSIO, G.-DAL COVOLO, E.-MARITANO, M., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Sei, Torino 1993, e al volume successivo degli stessi autori Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli IV e V, Sei, Torino 1995; QUASTEN, J., Patrologia. I Padri greci (sec. IV–V), Marietti, Casale 1980, vol. II; DI BERARDINO (dir.), Patrologia. I Padri latini (sec. IV–V), Marietti, Casale 1983, vol. III. Alcuni dei brani citati sono stati individuati grazie a ricerche lessicali compiute attraverso lo strumento informatico Patrologia Latina Database(Chadwyck-Healey Ltd, 1995, versione 5.0).
[102] Cfr. paragrafo 1.1; si può vedere al riguardo in particolare MENNESSIER, Douceur, col. 1676-1679.
[103] Nell’intero corpus della Patrologia latina si trovano soltanto 650 occorrenze di parole collegate con il vocabolo affabilis; come termine di paragone, si può segnalare la presenza di più di 11.000 termini collegati a bonitas, e più di 30.000 collegati a facilis.
[104] Si veda a proposito lo studio di OBERTI SOBRERO, M., L'etica sociale in Ambrogio di Milano. Ricostruzione delle fonti ambrosiane nel De justitia di San Tommaso, II-II, qq. 57-122, Asteria, Torino 1970, pp. 367; questo saggio, utile per uno studio sistematico delle rispettive quaestiones della II-II, non tocca il tema dell’affabilità, e presta maggiore attenzione alla virtù della liberalità e ai temi di fondo della giustizia sociale.
[105] Cfr. Sant’AMBROGIO, De Officiis, I, 24, 115 (PL 16, 57) e seguenti. Tutti i passi del De Officiis di sant’Ambrogio sono citati dalla seguente versione italiana: G. BANTERLE (ed. e trad.), Sant’Ambrogio. I doveri, Biblioteca Ambrosiana e Città Nuova, Milano-Roma 21991. Verranno indicate tra parentesi nel testo citato le parole latine più significative, e si riporterà in nota l’originale latino di alcuni dei brani.
[106] Cfr. Sant’AMBROGIO, De Officiis, I, 27, 127 (PL 16, 60).
[107] Cfr. CICERONE, De Officiis, I, 7, 22.
[108] Cfr. S.Th., II-II, q. 117.
[109] Sant’AMBROGIO, De Officiis, I, 34, 173 (PL 16, 73).
[110] Sant’Ambrogio utilizza poche volte vocaboli derivati da affabilis, e alcune anche in senso negativo: per esempio, nell’Epistola 50, 13 (Classe I; PL 16, 1158), l’affabilità è considerata uno degli strumenti con cui si possono corrompere i costumi dell’uomo.
[111] Sant’AMBROGIO, De Officiis, II, 7, 29 (PL 16, 111); il riferimento è a CICERONE, De Officiis, II, 14, 48; si veda a tal proposito anche quanto si dice nel paragrafo 2.5 del presente studio.
[112] CICERONE, De Officiis, II, 7, 23.
[113] Sant’AMBROGIO, De Officiis, II, 7, 30 (PL 16, 111).
[114] Nm 12, 3.
[115] Sant’AMBROGIO, De Officiis, II, 7, 31 (PL 16, 111).
[116] Questa virtù è chiamata dai Padri greci parresia. Anche san Giovanni Crisostomo mette in luce, commentando questo versetto del libro dei Numeri, la franchezza di Mosè nel dialogo con Dio in difesa degli israeliti ribelli. Cfr. al riguardo MIQUEL, P., Parresia, in M. VILLER (dir.), “Dictionnaire de Spiritualité”, XI, Paris 1983, coll. 262-267, specialmente la col. 263.
[117] Sant’AMBROGIO, De Officiis, II, 19, 96 (PL 16, 129): “Affabilitatem quoque sermonis diximus ad conciliandam gratiam valere plurimum. Sed hanc volumus esse dedeceat sermonis adulatio; forma enim esse debemus caeteris non solum in opere, sed etiam in sermone, in castitate ac fide. Quales haberi volumus, tales simus: et qualem affectum habemus, talem aperiamus”.
[118] Prov 27, 6; la versione della NV è la seguente: “Leali sono le ferite di un amico, fallaci i baci di un nemico”; questa citazione è ripresa in tre passi del trattato ambrosiano: I, 34, 173; II, 10, 50; III, 22,128; si noti che il passo è citato anche nella questione della Summasull’adulazione: cfr. S.Th II-II, q. 115 a 2.
[119] Sant’AMBROGIO, De Officiis, II, 10, 51 (PL 16, 116). Evidentemente, con “Prudenza” non si intende qui la virtù cardinale, ma piuttosto una certa acutezza d’ingegno.
[120] Ibid., II, 12, 60-61 (PL 16, 118-119).
[121] Ibid., III, 22, 135 (PL 16, 182).
[122] Cfr. BANTERLE, Sant’Ambrogio. I doveri, pp. 12-15, che cita diversi altri critici.
[123] Per questo aspetto e per altri approfondimenti relativi alle Omelie sugli Atti degli Apostoli, che si trovano in PG 60, si è fatto riferimento a MENNESSIER, Douceur, coll. 1676-1679. Ampi spunti bibliografici su san Giovanni Crisostomo si possono trovare in QUASTEN,Patrologia, pp. 427-485.
[124] Cfr. per esempio San GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sugli Atti degli Apostoli, 14, 2, 114 e 15, 4, 125.
[125] San GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sugli Atti degli Apostoli, 17, 3, 138 (la traduzione italiana è nostra, a partire dalla versione francese riportata da MENNESSIER, Douceur, col. 1678).
[126] Cfr. supra, Capitolo 2.1.
[127] Per una visione generale del concetto di parresia si veda MIQUEL, Parresia, coll. 262-267; per un’analisi del suo utilizzo da parte del Crisostomo, si confronti: ZINCONE, S.,Giovanni Crisostomo. Commento alla lettera ai Galati, Japadre, L’Aquila 1980, pp. 164-169; a questi testi fanno riferimento le osservazioni qui presentate. Si tornerà sul tema della parresia nella lettera ai Galati, a proposito della disputa tra san Gerolamo e sant’Agostino circa il “litigio” tra san Pietro e san Paolo ad Antiochia.
[128] Cfr. san GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento alla lettera ai Galati, PG 61 (611-682); cfr. in particolare ZINCONE, Giovanni Crisostomo, pp. 165-166.
[129] Cfr. Mc 8, 32: l’espressione latina con cui la Neovulgata rende la parola greca parresia, utilizzata in questo versetto, è “Et palam verbum loquebatur”. Tra i molteplici altri passi nei quali la Sacra Scrittura utilizza in questo senso la parola parresia, si veda per esempio At 18, 26, che parla della parresia di Apollo, che “cominciò a parlare francamente nella sinagoga” (fiducialiter agere, secondo la NV); At 19, 9, dove – utilizzando un composto della stessa parola greca – si dice che san Paolo “cum fiducia loquebatur per tres menses”; cfr anche At 26, 26, etc.
[130] Cfr. Mt 11, 29; si veda anche il capitolo 1.2 del presente studio.
[131] Cfr. Gal 5, 22; i frutti, nell’elenco tradizionale, sono 12, anche se il testo greco di Gal ne elenca soltanto 8.
[132] San GIOVANNI CRISOSTOMO, V Catechesi Battesimale, 30-33; si cita la versione italiana curata da A. Ceresa-Gastaldo nella “Collana di Testi Patristici”, Città Nuova, Roma 1982; questa è invece la I Catechesi secondo la numerazione stabilita da A. WENGER, curatore e traduttore in francese dell’edizione delle “Sources Chrétiennes 50bis”, Jean Chrysostome. Huit Catéchèse baptismales inédites, Cerf, Paris 31985; interessa notare due sfumature presenti nella traduzione francese di questo passo: la parola greca krestoteta, tradotta in italiano con “amabilità” è resa dal Wenger in francese con “affabilité”; e, subito prima, ciò che è reso in italiano con “dono dello Spirito”, è tradotto in francese con “fruit de l’Esprit”. Le Catechesi Battesimali si trovano anche in PG 49, 223-240.
[133] Sir 19, 27; la versione italiana della CEI traduce questo versetto così: “Il vestito di un uomo, la sua bocca sorridente e la sua andatura rivelano quello che è”. Wenger afferma che questa citazione del Siracide, pur risultando forse inusitata al lettore moderno, è frequentemente usata dal Crisostomo (cfr. WENGER, Huit Catéchèse baptismales inédites, p. 195, nt. 2).
[134] San GIOVANNI CRISOSTOMO, VIII Catechesi Battesimale, “Collana di Testi Patristici”, Città Nuova, Roma 1982, n. 26-27, pp. 152-153 (questa è la IV Catechesi, secondo la numerazione di Wenger). Il versetto paolino citato è Gal 5, 22; come si vede, la parola greca krestotes è resa da Ceresa-Gastaldo, traduttore per la “Collana di Testi Patristici”, con “benignità”; la versione della CEI usa invece “benevolenza”; il Wenger la traduce in francese, in questo caso, con “bénignité”.
[135] San GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul Vangelo di san Matteo, 4, 7-8 (PG 57-58); si cita la traduzione di Guglielmo Corti, raccolta in HEILMANN, La teologia dei Padri, III, pp. 35-36.
[136] Cfr. San GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla vanità e sull’educazione dei figli, Città Nuova, Roma 21985 (a cura di Antonio Ceresa-Gastaldo; si citerà questa traduzione italiana); l’autenticità di quest’opera del Crisostomo, ritenuta apocrifa dal Migne e pertanto non raccolta nella Patrologia Greca, non è ormai più contestata; si vedano i riferimenti bibliografici presentati da QUASTEN, Patrologia, II, pp. 469-470.
[137] San GIOVANNI CRISOSTOMO, Trattato sulla vanità e sull’educazione dei figli, c. 70 (pp. 64-65).
[138] “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza, per sapere come rispondere a ciascuno”; si è preferito citare il latino della NV, per mantenere alcune sfumature riprese dal Crisostomo nel commento.
[139] San GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sull’Epistola ai Colossesi, 11, 2-3 (PG 62, 299-392); si cita la traduzione italiana di Guglielmo Corti, raccolta in HEILMANN, La teologia dei Padri, III, pp. 197-198.
[140] Ibidem.
[141] San GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla prima lettera ai Corinzi, 33, 5 (PG 61, 9-61); si cita la traduzione italiana di Guglielmo Corti, raccolta in HEILMANN, La teologia dei Padri, III, p. 34. Interessante è il confronto tra questo passo e Sant’AGOSTINO,Confessiones, 5, 13, 23 (si veda più avanti, il paragrafo 3.4.1).
[142] San GIROLAMO, De viris illustribus, 124 (PL 23, 711): “meum iudicium subtraham, ne in alterutrum partem aut adulatio in me reprehendatur aut veritas” (la traduzione e nostra); per un’introduzione generale, con abbondante bibliografia, su san Girolamo, si può consultare: DI BERARDINO (dir.), Patrologia. I Padri latini, pp. 203-233.
[143] San GIROLAMO, Dialogus contra Pelagianos, 26, 723 (PL 23, 119): “Semper insidiosa, callida, blanda est adulatio. Pulchreque adulator apud philosophos definitur blandus inimicus. Veritas amara est, rugosae frontis ac tristis, offenditque correptos. Unde et Apostolus loquitur: Inimicus vobis factus sum, veritatem dicens vobis (Galat. IV, 16)? Et Comicus: Obsequium amicos, veritas odium parit” (la traduzione italiana è nostra). Si noti che la citazione terenziana è la stessa scelta da Cicerone nel De amicitia, 24, 90, analogo al presente passo; cfr. supra, paragrafo 2.5. Anche sant’Agostino citerà la massima terenziana, nell’Epist. 116, 31 (PL 22, 950), affermando la superiorità dell’insegnamento della Scrittura raccolto in Prov 26, 7; per le citazioni di questo versetto riportate da sant’Ambrogio, si veda il paragrafo 3.1.2, e – più avanti – il paragrafo 3.4.3.
[144] Cfr. S.Th., II-II, q. 115 a. 2 arg. 1, che cita: “nihil est quod tam facile corrumpat hominem quam adulatio”, tratto da san GIROLAMO, Epistola 148 ad Gelantiam matronam, 17 (PL 22, 1212).
[145] Cfr. Gal 2, 11-16. A proposito della questione, si può trovare bibliografia in AUVRAY, P.,Saint Jérôme et saint Augustine. La controverse au sujet de l’incident d’Antioche, “Recherche de science religieuse” 29 (1939) 594-610 e in MENESTRINA, G., “Quia reprehensibilis erat” (Gal 2, 11-14 nell’esegesi di Agostino e Girolamo), “Bibbia e Oriente” 17 (1975) 33-42; per un’introduzione al rapporto tra Agostino a Girolamo, si veda BOSIO – DAL COVOLO – MARITANO, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, pp. 135-136.
[146] Cfr. San GIROLAMO, Commento alla lettera ai Galati, prol. e 2,14 (PL 26, 334-336). A proposito dell’interpretazione del Crisostomo, si veda ZINCONE, Giovanni Crisostomo. Commento alla lettera ai Galati, pp. 158-160.
[147] Cfr. san GIROLAMO, Epistola 112 (PL 22, 916-931). Il carteggio tra Girolamo e Agostino comprende 18 lettere, ma ne esistevano probabilmente altre che sono andate perdute; tre di queste riguardano l’argomento in questione. Su questo e su altri argomenti di tipo filologico, la suscettibilità di san Girolamo appare evidente nel carteggio con sant’Agostino, sebbene sia pure crescente la stima reciproca, anche a motivo delle comuni dispute contro Pelagio.
[148] San GIROLAMO, Commento alla lettera ai Galati, PL 26, 420: “Benignitas etiam sive suavitas, quia apud Graecos óV utrumque sonat, virtus est lenis, blanda, tranquilla, et omnium bonorum apta consortio, invitans ad familiaritatem sui, dulcis alloquio, moribus temperata. Denique et hanc Stoici ita definiunt: Benignitas est virtus sponte ad bene faciendum exposita. Non multum bonitas a benignitate diversa est: quia et ipsa ad benefaciendum videtur exposita. Sed in eo differt, quia potest bonitas esse tristior, et fronte severis moribus irrugata, bene quidem facere et praestare quod poscitur: non tamen suavis esse consortio, et sua cunctos invitare dulcedine. Hanc quoque sectatores Zenonis ita definiunt: Bonitas est virtus quae prodest: sive, virtus ex qua oritur utilitas: aut, virtus propter semetipsam: aut affectus qui fons sit utilitatum” (la traduzione è nostra).
[149] Si veda per es. CICERONE, De Officiis, III, 5, citato supra, paragrafo 2.5.
[150] A riprova di questa interpretazione non rigida, si può notare come il brano appena citato sia stato interpretato quale definizione di mitezza, intesa quale parte potenziale della temperanza: cfr. TANQUERAY, A., Compendio de Teología Ascética y Mística, Palabra, Madrid 1990, p. 900, nota 177. Si può notare che san Girolamo utilizza invece alcune volte la parola affabilitas in senso negativo, per indicare l’abilità nel corrompere e indurre al vizio, da evitare quindi con ogni mezzo: cfr., per esempio, san GIROLAMO, Epistola128, 4 (PL 22, 1098).
[151] San GIROLAMO, Commento alla lettera ai Galati, 3, 511 (PL 26, 418): “sine qua virtutes caeterae non reputantur esse virtutes, et ex qua nascuntur universa quae bona sunt” (la traduzione è nostra).
[152] Ef 4, 32.
[153] San GEROLAMO, Commento alla lettera agli Efesini, III, 637 (PL 26, 517): “Supra amaritudini contrariam dulcedinem dixeramus, quam nunc Apostolus alio verbo id est suavitatem magis quam benignitatem vocavit: praecipiens ut omni amaritudine et furore, ira, clamore, et blasphemia, et motu turbido, cum quadam frontis austeritate damnatis, clementes simus, et blandi; et ad familiaritatem nostram ultro homines invitemus, ut nullus ad nos formidet accedere: quae familiaritas maxime ex misericordia comparatur” (la traduzione è nostra).
[154] Ibid.
[155] San GIROLAMO, Lettera 46, 1 (PL22, 483): “Igitur, quod solum absentes facere possumus, querulas fundimus preces; et desiderium nostrum non tam fletibus, quam eiulatibus contestamur, ut Marcellam nostram nobis reddas, et illam mitem, illam suavem, illam omni melle et dulcedine dulciorem non patiaris apud eas esse rigidam, et tristem rugare frontem, quas affabilitate sua ad simile vitae studium provocavit” (la traduzione e nostra). In favore del probabile intervento di san Girolamo nella stesura della lettera si pronuncia il curatore dell’edizione bilingue latino–spagnolo di San GEROLAMO,Epistolario, BAC, Madrid 1995, t. II, pp. 374-375.
[156] Sant’AGOSTINO, Confessioni, 5, 13, 23 (PL 32, 717): “Et veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum, in optimis notum orbi terrae, pium cultorem tuum (...). Suscepit me paterne ille homo Dei, et peregrinationem meam satis episcopaliter dilexit. Et eum amare coepi, primo quidem non tamquam doctorem veri, quod in Ecclesia tua prorsus desperabam, sed tanquam hominem benignum in me (...). Et delectabar suavitate sermonis, quamquam eruditioris, minus tamen hilarescentis atque mulcentis quam Fausti erat, quod attinet ad dicendi modum. Caeterum rerum ipsarum nulla comparatio”; qui e altrove si cita la traduzione di Carlo Carena, pubblicata nell’edizione di sant’AGOSTINO, Le Confessioni, Città Nuova, Roma 1965.
[157] Cfr. san GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sulla prima lettera ai Corinzi, 33, 5 (PG 61, 9-61) citato nel paragrafo 3.2.3.
[158] Nel corpus degli scritti di sant’Agostino ci sono solo 6 occorrenze di parole derivate daaffabilis.
[159] Sant’AGOSTINO, Lettera 111, 8 (PL 33, 650): “Quae illi vero probitas in moribus, in amicitia fides, in doctrina studium, in religione sinceritas, in coniugio pudicitia, in iudicio continentia; erga inimicos patientia, erga amicos affabilitas, erga sanctos humilitas, erga omnes caritas” (la traduzione e nostra).
[160] Sant’AGOSTINO, Commento al Salmo 103, 1, 19 (PL 37, 1351), la traduzione è nostra.
[161] Sir 4, 7.
[162] Questi aspetti centrali della teologia morale e spirituale di sant’Agostino vengono presentati a partire dalle riflessioni di MONDIN, B., Il pensiero di Agostino. Filosofia, teologia, cultura, Città Nuova, Roma 1988, specialmente le pp. 333-339; PINCKAERS, S.,Le fonti della morale cristiana, ARES, Milano 1992, pp. 174-198; TRAPÈ, A., S. Agostino. L’uomo, il pastore, il mistico, Esperienze, Fossano 1976, in particolare le pp. 381-394; CARUANA, S., Introduzione al Discorso del Signore Montagna e MENDOZA, M.,Introduzione all’Esposizione della lettera ai Galati, in sant’AGOSTINO, Opere esegetiche, X-2, Città Nuova, Roma 1997.
[163] Sant’AGOSTINO, Commento all’Epistola ai Parti di san Giovanni, 8, 1 (PL 35, 2036); si cita la traduzione a cura di Giulio Madurini, nell’edizione di sant’AGOSTINO, Opere esegetiche, X-2, Città Nuova, Roma 1968, p. 1789.
[164] Sant’AGOSTINO, De spiritu et lettera, 14, 26 (PL 44, 217).
[165] Cfr. Gal 5, 22.
[166] Sant’AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, 87, 1 (PL 35, 1853); si cita la traduzione a cura di Emilio Gandolfo, nell’edizione di sant’AGOSTINO, Discorsi, XXIV-2, Città Nuova, Roma 1968, pp. 1277-1279.
[167] Sant’AGOSTINO, Commento alla lettera ai Galati, 51 (PL 35, 2142): “ut autem in aliis, inter quos vivimus, iusta moderatione tractentur, et ad sustinendum longanimitas, et ad curandum benignitas, et ad ignoscendum bonitas militat. Iam vero haeresibus fides, invidiae mansuetudo, ebrietatibus et comessationibus continentia reluctatur”; si cita dalla traduzione di Vincenzo Tarulli in sant’AGOSTINO, Opere esegetiche, vol. X-2, Città Nuova, Roma 1997, p. 659.
[168] Cfr. supra, paragrafo 1.2.
[169] Sant’AGOSTINO, Il Discorso del Signore sulla Montagna, PL 34, 1229-1308.
[170] Mt 5, 5.
[171] Cfr. sant’AGOSTINO, Il Discorso del Signore sulla Montagna, 1, 2, 4 (PL 34, 1232).
[172] Sant’AGOSTINO, Il Discorso del Signore sulla Montagna, 2, 11, 38 (PL 34, 1286); si cita la traduzione a cura di Domenico Gentili, pubblicata in sant’AGOSTINO, Opere esegetiche, vol. X-2, Città Nuova, Roma 1997.
[173] PINCKAERS, Le fonti della morale cristiana, p. 190.
[174] Cfr. sant’AGOSTINO, Commento alla lettera ai Galati, 15 (PL 35, 2114): il testo dice che Pietro “simulate illis consentiebat”. Sant’Agostino analizza il tema della bugia due volte in modo sistematico: la prima, dell’anno 395, con il De mendacio (PL 40, 487-517); la seconda, del 420-421, nel Contra mendacium (PL 40, 517-548).
[175] Sant’AGOSTINO, Commento alla lettera ai Galati, 15 (PL 35, 2114)
[176] Sant’AGOSTINO, Commento all’Epistola ai Parti di san Giovanni, 8, 1 (PL 35, 2036): “Dilectio dulce verbum, sed dulcius factum (…). Opera misericordiae, affectus caritatis, sanctitas pietatis, incorruptio castitatis, modestia sobrietatis, semper haec tenenda sunt: sive cum in publico sumus, sive cum in domo, sive cum ante homines, sive cum in cubiculo, sive loquentes, sive tacentes, sive aliquid agentes, sive vacantes; semper haec tenenda sunt; quia intus sunt omnes istae virtutes quas nominavi”. Il brano che precede questo passo è stato citato nel paragrafo 3.4.1.
[177] Sant’AGOSTINO, Commento al Salmo 103, 1, 19 (PL 37, 1352): “Interrogate, quando rogatis Deum, corda vestra (...). Si ergo non oraveritis, spem non habebitis: si aliter quam Magister docuit oraveritis, non exaudiemini; aut si in oratione mentiti fueritis, non impetrabitis. Ergo, et orandum, et verum dicendum est, et sic orandum est, quomodo ille docuit. Velis nolis, quotidie dicturus es: Dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris. Vis securus dicere? Fac quod dicis” (la traduzione è nostra).
[178] Gv 3, 21.
[179] Sant’AGOSTINO, Commento al Vangelo di Giovanni, 12, 13 (PL 35, 1491): “Facis veritatem et venis ad lucem. Quid est, Facis veritatem? Non te palpas, non tibi blandiris, non te adulas; non dicis, iustus sum, cum sis iniquus”.
[180] Sal 70 (69), 4.
[181] Sant’AGOSTINO, Commento al Salmo 69, 5 (PL 37, 870): “Duo sunt genera persecutorum; vituperantium, et adulantium. Plus persequitur lingua adulatoris, quam manus interfectoris” (la traduzione è nostra). Come si vede, la considerazione agostiniana è simile a quella di sant’Ambrogio più volte citata, che si rifà a Prov 27, 6 (cfr.supra, par 3.1.2)
[182] Sant’AGOSTINO, Confessiones, 9, 18 (PL 32, 772): “Ancilla enim cum qua solebat accedere a cuppam, litigans cum domina minore, ut fit, sola cum sola, objecit hoc crimen, amarissima insultation vocans meribibulam. Quo illa stimulo percussa, respexit foeditatem suam, confestimque damnavit atque exuit. Sicut amici adulantes pervertunt, sic inimici litigantes plerumque corrigunt”.
[183] Ibid., 9, 19.
[184] Ibid. Il testo latino dice: “Sic vicit obsequiis perseverans tolerantia et mansuetudine (…), memorabili inter se benevolentiae suavitate vixerunt”.
[185] Gal 6, 2.
[186] Sant’AGOSTINO, Commento alla lettera ai Galati, 57 (PL 35, 2145): “Dilige et dic quod voles”. Il testo è dell’anno 394-395.
[187] Sant’AGOSTINO, Commento all’Epistola ai Parti di san Giovanni, 7, 8 (PL 35, 2033): “Hoc diximus in similibus factis. In diversis factis, invenimus saevientem hominem factum de charitate; et blandum factum de iniquitate. Puerum caedit pater, et mango blanditur (…). Videte quid commendamus, quia non discernuntur facta hominum, nisi de radice caritatis. Nam multa fieri possunt quae speciem habent bonam, et non procedunt de radice caritatis. Habent enim et spinae flores: quaedam vero videntur aspera, videntur truculenta; sed fiunt ad disciplinam dictante caritate. Semel ergo breve praeceptum tibi praecipitur: dilige, et quod vis fac: sive taceas, dilectione taceas; sive clames, dilectione clames; sive emendes, dilectione emendes; sive parcas, dilectione parcas: radix sit intus dilectionis, non potest de ista radice nisi bonum existere”. Il testo è dell’anno 415; cfr. TRAPÈ, S. Agostino. L’uomo, il pastore, il mistico, p. 386.
[188] Queste riflessioni presentano le conclusioni alle quali giungono alcuni importanti studi sulla morale di san Tommaso, tra i quali ci limitiamo a citare PINCKAERS, S., Le fonti della morale cristiana, in particolare le pp. 260-271; ABBÀ, G., Quali impostazione per la filosofia morale?, Las, Roma 1996, pp. 53-68; ABBÀ, G., Felicità, vita buona e virtù, Las, Roma 1989: in questa monografia si trova un’ampia bibliografia sul dibattito relativo alla virtù, alle pp. 77-84; una sintesi recente è quella presentata da ELDERS, L. J., The Ethics of St. Thomas Aquinas, “Anuario Filosófico” 39/2 (2006) 439-463; l’autore di questo articolo sottolinea l’importanza di non creare una rottura tra l’etica filosofica e la teologia morale di san Tommaso, dal momento che il fine soprannaturale dell’uomo, la visione beatifica, influenza e caratterizza l’intero trattato teologico.
[189] Sent. in Ethic., I, 9: “Loquitur enim in hoc libro philosophus de felicitate, qualis in hac vita potest haberi. Nam felicitas alterius vitae omnem investigationem rationis excedit”.
[190] S.Th., I-II, q. 2, 4, ad 1. Oltre ai testi indicati sopra, per una presentazione sintetica e profonda dell’impostazione della morale di san Tommaso, si può vedere WADELL, P.J.,La primacía del amor. Una introducción a la Ética de Tomás de Aquino, Palabra, Madrid 2002 (Tit. orig. The primacy of love. An introduction to the Ethics of Thomas Aquinas), in particolare il capitolo III, pp. 84-120, “La felicidad: lo que todo el mundo quiere”.
[191] Basti citare a questo proposito – rimandando all’ulteriore bibliografia presente nei testi citati in precedenti note – lo studio di MACINTYRE, A., Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988 (Tit. or. After virtue).
[192]Cfr. S.Th. II-II, Proemio: “Sic igitur tota materia morali ad considerationem virtutum reducta, omnes virtutes sunt ulterius reducendae ad septem, quarum tres sunt theologicae, de quibus primo est agendum; aliae vero quatuor sunt cardinales, de quibus posterius agetur”.
[193] S.Th., I-II, q. 55, a. 3: “virtus humana, quae est habitus operativus, est bonus habitus, et boni operativus”. San Tommaso presenta almeno due altre definizioni di virtù, l’una di matrice agostiniana e l’altra che si rifà ad Aristotele. La prima, valida soprattutto per la virtù soprannaturale, si trova in S.Th., I-II, q. 55, a. 4: “Virtus est bona habitus mentis, qua recte vivitur, qua nemo male utitur, quam Deus in nobis sine nobis operatur”; la seconda è invece nel De Virtutibus, q. 1, a. 12: “Est enim virtus moralis habitus electivus in medietate consistens determinata secundum rectam rationem”.
[194] Cfr. ELDERS, The Ethics of St. Thomas Aquinas, p. 461. Il termine “virtù sociali” non pare essere ad alcuni particolarmente fortunato: ogni virtù, rigorosamente parlando, è “sociale”, dal momento che tutte influiscono più o meno direttamente sull’intera società e, da un punto di vista teologico, sulla Chiesa intera come Corpo mistico di Cristo; così puntualizza ROYO MARIN, A., Teología moral para seglares, BAC, Madrid 61986, I, p. 855, nota 1.
[195] La traduzione latina dell’Etica a Nicomaco fu pubblicata nel 1246-47 da Roberto Grossatesta; tuttavia, la decisione di servirsi dell’impostazione aristotelica dell’etica come base per l’elaborazione della parte specificamente morale della teologia è da parte dell’Aquinate ardita e ambiziosa; di fatto, non ebbe un reale seguito; sull’argomento, si veda ABBÀ, G., Quale impostazione per la filosofia morale, pp. 56-57.
[196] Sent. Ethic., 2, 9 (1107b21-1108b10): “conveniunt quidem quantum ad hoc quod omnes sunt circa verba et opera quibus homines adinvicem communicant”.
[197] Ibid. Aristotele, nel passo commentato qui da san Tommaso, si limita ad affermare che è conveniente trovare nomi alle virtù di cui si sta parlando per una maggiore chiarezza dell’esposizione: cfr. Etica II, 7, 1108a15.
[198] Cfr. par. 2.2. Da qui deriva il fatto che san Tommaso utilizzi spesso – per esempio inS.Th. II-II, q. 114 – affabilitas e amicitia come sinonimi, avendo chiaramente il secondo termine un’estensione più ampia.
[199] Questo versetto del Siracide (libro chiamato Ecclesiastico nella Vulgata) è citato da san Tommaso – come si vedrà – in S.Th., II-II, q. 114; lo si trova anche in Super Iohann., 4, 3 e 7, Super Matt., 8, 2.
[200] Sent. Ethic., 2, 9: “Et dicit quod circa reliquum delectabile quod est in vita quantum ad ea quae seriose aguntur, medius vocatur amicus, non ab affectu amandi, sed a decenti conversatione; quem nos possumus affabilem dicere. Et ipsa medietas vocatur amicitia vel affabilitas”.
[201] Sent. Ethic., 4, 14 (1126b11 – 1127a12).
[202] Ibid.: “quod tendit ad hoc quod sine tristitia, vel etiam cum delectatione aliis convivat. Et hoc refert ad bonum honestum, et ad conferens, idest utile, quia est circa delectationes et tristitias quae fiunt in colloquiis, in quibus principaliter et proprie consistit convictus humanus. Hoc enim est proprium hominum respectu aliorum animalium, quae sibi in cibis vel in aliis huiusmodi communicant”. Per approfondimenti su questo punto, si veda a WHITE, Affabilitas and veritas in Aquinas: the Virtues of Man as Social Animal, pp. 643-645.
[203] Per un inquadramento generale del tema delle virtù sociali, si veda GERLAUD, M.J., Le virtù sociali, in AA.VV., Iniziazione teologica, Brescia 1955, III, pp. 752-782. E’ utile inoltre l’introduzione di BLAZQUEZ, N., Tratado de las virtudes sociales, in TOMMASO D’AQUINO, Suma de Teología IV, parte II-II (b), BAC, Madrid 1994, pp. 183-195; Blázquez considera S.Th., II-II, q. 80, che tratta le parti potenziali della giustizia, come la chiave di lettura dell’intero trattato sulle virtù sociali.
[204] S.Th. II-II, q. 48, a.1: “Partes autem potentiales alicuius virtutis dicuntur virtutes adiunctae quae ordinantur ad aliquos secundarios actus vel materias, quasi non habentes totam potentiam principalis virtutis”.
[205] Cfr. S.Th., II-II, q. 58, a. 1, co.: “Et si quis vellet in debitam formam definitionis reducere, posset sic dicere, quod iustitia est habitus secundum quem aliquis constanti et perpetua voluntate ius suum unicuique tribuit”.
[206] RODRIGUEZ LUÑO, A., Ética General, Eunsa, Pamplona 42001, p. 249 (la traduzione è nostra). Sulla stessa linea si esprime BORTONE, E., Affabilità, in E. ANCILLI (dir.), “Dizionario enciclopedico di spiritualità”, I, Città Nuova, Roma 1990, p. 35: “L’affabilità è parte integrante della giustizia, in quanto importa un dovere verso gli altri; ne differisce in quanto non obbliga strettamente in termini di legge, né a titolo di gratitudine”.
[207] A questa conclusione giunge BLAZQUEZ, Tratado de las virtudes sociales, p. 187. Si veda al riguardo GERLAUD, Le virtù sociali, p. 759.
[208] Cfr. S.Th., II-II, q. 80 co.; si può notare che il testo al quale san Tommaso fa riferimento è CICERONE, De inventione rhetorica, 2, 53, che nomina sei virtù: la religione, la pietà, la gratitudine, la vendetta, l’osservanza e la veracità; come si è visto (cfr. supra, par. 2.5), Cicerone riporta un elenco diverso nel De finibus bonorum et malorum (V, 23, 65), opera più matura, dove sono contenute la benignitas e la comitas, assai vicine all’affabilitas qui presentata da san Tommaso.
[209] Cfr. MACROBIO, Commentaire au songe de Scipion, Les Belles Lettres, Parigi 2003 (traduzione francese a cura di Mireille Armisen Marchetti). Il testo ciceroniano delSomnium Scipionis rimase sconosciuto lungo tutto il medioevo e fino al XVIII secolo, quando fu riscoperto e pubblicato; il Commento di Macrobio fu pertanto l’unica fonte attraverso la quale san Tommaso poté averne notizia. Su Macrobio si può consultare MARINONE, N., Macrobio, in “Enciclopedia Virgiliana”, III, 1987, pp. 299-304.
[210] MACROBIO, Commentaire au songe de Scipion, I, 8: “Iustitiae servare unicuique quod suum est; de iustitia veniunt innocentia, amicitia, concordia, pietas, religio, affectus, humanitas”.
[211] Lo Scriptum super libros Sententiarum risale al primo periodo trascorso da san Tommaso a Parigi, tra il 1252 e il 1256; cfr. WEISHEIPL, J.A., Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, Jaca Book, Milano 1988, pp. 357-359; si veda anche, sul tema, ABBÀ, G., Quale impostazione per la filosofia morale?, pp. 57-59.
[212] Super Sent., 3, d. 33, q. 3, a. 4, qc. 2: “Ad secundum dicendum, quod amicitia hic sumitur non sicut in VIII Ethic., quae consistit principaliter in affectu, sed ut in IV, cap. 12, quae consistit principaliter in affabilitate exteriori, quae habetur etiam ad extraneos”.
[213] Si possono trovare sintesi della trattazione di questa virtù e dei relativi vizi nella Summanelle seguenti voci di dizionari: MONDIN, B., Affabilità/Cortesia, in “Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d'Aquino”, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1991, p. 26; NOBLE, H.–D., Bonté, in VILLER, M. (dir.), “Dictionnaire de Spiritualité”, Paris 1937, coll. 1859-1868; BORTONE, Affabilità, pp. 35 ss.; DE CEA, E.,Affabilità, in BORRIELLO, L. – CARUANA, E. – DEL GENIO, M.R. – SUFFI, N. (dir.), “Dizionario di mistica”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 56 ss. Un’altra sintesi si trova in SERTILLANGES, A., La philosophie morale de St. Thomas d’Aquin, Paris 1942, pp. 227-230.
[214] S.Th 2-2, q. 114, a.1 co.: “Oportet autem hominem convenienter ad alios homines ordinari in communi conversatione, tam in factis quam in dictis, ut scilicet ad unumquemque se habeat secundum quod decet. Et ideo oportet esse quandam specialem virtutem quae hanc convenientiam ordinis observet. Et haec vocatur amicitia sive affabilitas”; qui e altrove si cita la traduzione italiana a cura dello Studio Domenicano, San TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica, PDUL, Bologna 1996, vol. 4.
[215] S.Th., II-II, q. 114, a. 1, ad 1: “Philosophus in libro Ethicorum de duplici amicitia loquitur. Quarum una consistit principaliter in affectu quo unus alium diligit. Et haec potest consequi quamcumque virtutem. Quae autem ad hanc amicitiam pertinent, supra de caritate dicta sunt. Aliam vero amicitiam ponit quae consistit in solis exterioribus verbis vel factis. Quae quidem non habet perfectam rationem amicitiae, sed quandam eius similitudinem, inquantum scilicet quis decenter se habet ad illos cum quibus conversatur”.
[216] Si tornerà su questo tema nel paragrafo 4.6.
[217] Ibid., a. 1, ad 2: “Ad secundum dicendum quod omnis homo naturaliter omni homini est amicus quodam generali amore, sicut etiam dicitur Eccli. XIII, quod omne animal diligit simile sibi. Et hunc amorem repraesentant signa amicitiae quae quis exterius ostendit in verbis vel factis etiam extraneis et ignotis. Unde non est ibi simulatio”.
[218] Qo 7, 4.
[219] S.Th., II-II, q. 114, ad 3.
[220] Ibid.
[221] Cfr. ibid., a. 2 s.c.; san Tommaso cita il trattato di Macrobio, In Sominum Scipionis, 1, 8; cfr. supra, paragrafo 4.2.
[222] S.Th., II-II, q. 114, a. 2, co.
[223] Ibid., ad 1: “sicut autem non posset vivere homo in societate sine veritate, ita nec sine delectatione”; a proposito di questo tema, si veda il paragrafo 4.5.
[224] Questo punto verrà approfondito nel paragrafo 4.7.
[225] S.Th., II-II, q. 115, a. 1 co.
[226] Ibid., a. 2 co.
[227] Ibid.
[228] San GIROLAMO, Epistola 148 ad Gelantiam matronam, 17 (PL 22, 1212).
[229] Per sant’Ambrogio, cfr. paragrafo 3.1.2; per sant’Agostino, si veda il paragrafo 3.4.3.
[230] S.Th. II-II, q. 115, a. 2, ad 1.
[231] Ibid., ad 2.
[232] S.Th., II-II, q. 43 a. 1 ad 3: la questione riguarda la virtù cardinale della prudenza; cfr. per esempio anche S.Th., I-II, q. 73, a. 8, ad 3.
[233] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2480.
[234] S.Th., II-II, q. 116, a.1, co. Per la traduzione di “amicitia” con “amabilità”, si veda più avanti, paragrafo 4.6.
[235] Cfr. ibid., ad 1 e 2; in questo passo, interpretando Gc 4, 1: “Da cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra?” san Tommaso afferma che le “passioni” di cui si parla sono frutto della concupiscenza, ma che quest’ultima è da intendersi qui come la fonte di ogni vizio, e non soltanto di quelli in qualche modo collegati con la temperanza; si tornerà sul rapporto tra affabilità e mansuetudine in S.Th., II-II, q. 157, a. 4 ad 3; cfr. paragrafo 4.7.
[236] Ibid., a. 2, co.
[237] Ibid.
[238] Per un inquadramento generale della virtù sociale della veracità, si veda SARMIENTO, A., – TRIGO, T., – MOLINA, E., Moral de la persona, Eunsa, Pamplona 2006, pp. 369-372. Questo paragrafo riprende le considerazioni svolte da WHITE, Affabilitas and veritas in Aquinas: the Virtues of Man as Social Animal, in particolare le pp. 647-652.
[239] S.Th., II-II, q. 114, a. 2, ad 1: “Sicut supra dictum est, quia homo naturaliter est animal sociale, debet ex quadam honestate veritatis manifestationem aliis hominibus, sine qua societas hominum durare non posset. Sicut autem non posset vivere homo in societate sine veritate, ita nec sine delectatione”; sembra tuttavia che “delectatione”, invece che con “soddisfazioni”, si renderebbe meglio in italiano con “una certa gioia”.
[240] S.Th., I-II, q. 60, a5, co.: “In seriis autem se exhibet aliquis alteri dupliciter. Uno modo, ut delectabilem decentibus verbis et factis, et hoc pertinet ad quandam virtutem quam Aristoteles nominat amicitiam; et potest dici affabilitas. Alio modo praebet se aliquis alteri ut manifestum, per dicta et facta, et hoc pertinet ad aliam virtutem, quam nominat veritatem”.
[241] S.Th., II-II, q. 109, a. 2, co.: “Cum autem bonum, secundum Augustinum, in libro de natura boni, consistat in ordine, necesse est specialem rationem boni considerari ex determinato ordine. Est autem specialis quidam ordo secundum quod exteriora nostra vel verba vel facta debite ordinantur ad aliquid sicut signum ad signatum. Et ad hoc perficitur homo per virtutem veritatis”; Il riferimento a sant’Agostiono rimanda al De natura boni, 3 (PL 42, 553): “omnia enim quanto magis moderata, speciosa, ordinata sunt, tanto magis utique bona sunt”.
[242] Sent. in Ethic., 4, 14: “In actibus autem seriosis est duo considerare, scilicet delectationem et veritatem”; cfr. Etica, IV, 12-13, 1126b-1128a.
[243] S.Th., II-II, q. 114, a. 2, ad 1.
[244] S.Th., II-II, q. 109, a. 3, ad 1.
[245] A questa conclusione giunge l’articolo di WHITE, Affabilitas and veritas in Aquinas: the Virtues of Man as Social Animal, p. 651.
[246] Politica, I, 1, 1153a2-3: “E’ evidente che lo stato è una creazione della natura, e che l’uomo è per natura un animale politico”.
[247] Cfr. S.Th., II-II, q. 109, a. 3, ad 1: “quia homo est animal sociale, naturaliter unus homo debet alteri id sine quo societas humana conservari non posset”; S.Th., II-II, q. 114, a. 2, ad 1: “quia homo naturaliter est animal sociale, debet ex quadam honestate veritatis manifestationem aliis hominibus, sine qua societas hominum durare non posset”.
[248] Per un’indagine dei luoghi in cui l’Aquinate usa animal sociale, animal politicum e animal civile, si veda SCULLY, E., The Place of the State in Society According to Aquinas, “The Thomist” 45 (1981) 407-429; a questo studio si ricollega White nell’articolo citato nel paragrafo precedente. In questo paragrafo si fa riferimento anche alle considerazioni di TORRELL, J.-P.,Tommaso d’Aquino, maestro spirituale, Città Nuova, Roma 1998, in particolare le pp. 313-329 del capitolo XII, intitolato “Senza amici chi vorrebbe vivere?”. Per un inquadramento sistematico al concetto di “socievolezza” proprio della natura umana, si veda SARMIENTO – TRIGO – MOLINA, Moral de la persona, pp. 259-269.
[249] Sent. Politic., 1, 1: “Cum ergo homini datus sit sermo a natura, et sermo ordinetur ad hoc, quod homines sibiinvicem communicent in utili et nocivo, iusto et iniusto, et aliis huiusmodi; sequitur, ex quo natura nihil facit frustra, quod naturaliter homines in his sibi communicent. Sed communicatio in istis facit domum et civitatem. Igitur homo est naturaliter animal domesticum et civile”.
[250] Sent. Ethic., 4, 14 (1126b11): “circa colloquia humana, per quae maxime homines adinvicem convivunt secundum proprietatem suae naturae, et universaliter circa totum convictum hominum qui fit per hoc quod homines sibi invicem communicant in sermonibus et in rebus”; cfr. paragrafo 4.1. Si noti che i commenti di san Tommaso allaPolitica e all’Etica di Aristotele sono più o meno contemporanei, e risalgono allo stesso periodo parigino nel quale fu composta la II-II; cfr. WEISHEIPL, Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, p. 372.
[251] TORRELL, Tommaso d’Aquino, maestro spirituale, p. 318. Come si accennava nelle conclusioni del capitolo 2, è chiaro l’influsso terminologico che la cultura cristiana deve all’espressione di Cicerone: “quasi quaedam societas et communicatio utilitatum et ipsa caritas generis humani” (De finibus bonorum et malorum, 5, 23, 65).
[252] Cfr. S.Th., II-II, q. 114, a. 1 ad 1.
[253] S.Th., II-II, q. 23, a. 1 co.: “quia amicus est amico amicus. Talis autem mutua benevolentia fundatur super aliqua communicatione. Cum igitur sit aliqua communicatio hominis ad Deum secundum quod nobis suam beatitudinem communicat, super hac communicatione oportet aliquam amicitiam fundari. De qua quidem communicatione dicitur fidelis Deus, per quem vocati estis in societatem Filii eius (1Cor 1, 9). Amor autem super hac communicatione fundatus est caritas. Unde manifestum est quod caritas amicitia quaedam est hominis ad Deum”. In questo passo si nota chiaramente l’impoverimento concettuale della traduzione italiana di “communicatio” con “comunicazione”.
[254] Per ulteriori approfondimenti sulla concezione dell’amore di amicizia in rapporto alla carità nella teologia tomista si rimanda ad alcune sintesi, ricche di bibliografia: MANZANEDO, M. F., La amistad según Santo Tomás, “Angelicum” 71/3 (1994) 371-426; McENVOY, J.,Amitié, attirance et amour chez St Thomas d’Aquin, “Revue Philosophique de Louvain” 91 (1993) 383-407; JONES, L. G., Theological Transformation of Aristotelian Friendship in the Thought of St. Thomas Aquinas, “The New Scholasticism” 61 (1987) 373-399.
[255] S.Th., II-II, q. 114, a. 1, ad 1. Cfr. anche, per es., De virtutibus in communi, q.1, a.5, ad 5: “amicitia proprie non est virtus, sed consequens virtutem. Nam ex hoc ipso quod aliquis est virtuosus, sequitur quod diligat sibi similes”.
[256] Si noti che la distinzione dei due tipi di amicizia è la stessa già citata, tratta dal Super Sent. 3, d. 33, q. 3 a. 4, dove del secondo tipo si dice “quae consistit principaliter in affabilitate exteriori, quae habetur etiam ad extraneos”.
[257] CHALMETA, G., Ética especial. El orden ideal de la vida buena, Eunsa, Pamplona 1996, p. 111.
[258] TORRELL, Tommaso d’Aquino, maestro spirituale, p. 314; Torrell evidenzia che l’autorità qui non è più Aristotele, ma diventa Gv 15, 15 (“non vi chiamo più servi ma amici”); per approfondire il tema, si può vedere KEATY, A. W., Thomas's Authority for Identifying Charity as Friendship: Aristotle or John 15?, “The Thomist” 62/4 (1998) 581-601.
[259] Cfr. PHELAN, Justice and Friendship, p. 160 e pp. 165-169; si veda anche WADELL, La primacía del amor, pp. 123-144 (cap. IV.: “Lo que significa tener a Dios como amigo”).
[260] PINCKAERS, Le fonti della morale cristiana, p. 532; cfr. anche SCHALL, J. V., The Totality of Society: From Justice to Friendship, “The Thomist” 20 (1957) 1-26, specialmente alle pp. 20-22, dove si sostiene che l’amicizia politica sia una parte dell’affabilità. Sul tema della carità politica, con un’impostazione giuridica, è interessante consultare LUPPI, S.,Natura sociale dell'uomo e carità politica secondo S. Tommaso d'Aquino, in AA.VV., Etica, sociologia e politica d'ispirazione tomistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 409-422.
[261] E’ questa la conclusione dello studio di DE LA VEGA, J., Justicia, amistad, caridad y sociedad cristiana, in BOROBIA, J. - LLUCH, M. - MURILLO, J. I. - Terrasa, E., “Cristianismo en una cultura postsecular”, Eunsa, Pamplona 2006, pp. 465-476 (si vedano specialmente le pp. 475-476); tuttavia, l’autore dell’articolo non giunge a mettere bene a fuoco (cfr. p. 470) il fatto che il substrato umano sul quale si appoggia la carità soprannaturale è proprio l’amicizia, intesa come affabilitas tomista e philia aristotelica nel suo senso più ampio.
[262] 2Cor 6, 6-7. La Vulgata dice: “in suavitate, in Spiritu Sancto, in caritate non ficta, in verbo veritatis”.
[263] Super II Cor., 6, 2: “Caritas autem duo habet, scilicet effectum exteriorem et interiorem. Sed in effectu exteriori habet suavitatem ad proximum. Non enim convenit quod aliquis non sit suavis ad eos quos diligit. Et ideo dicit ‘in suavitate’, id est dulci conversatione ad proximos, ut scilicet blandi simus (Prov 12, 11: ‘qui suavis est, vivit in moderationibus’, et cetera; Sir 6, 5: ‘verbum dulce multiplicat amicos’, et cetera). Sed non in suavitate mundi, sed in ea quae causatur ex amore Dei, scilicet ex Spiritu Sancto, et ideo dicit ‘in Spiritu Sancto’, id est quam Spiritus Sanctus causat in nobis (Sap 12, 1: ‘o quam bonus et suavis’, et cetera). In effectu autem interiori habet veritatem absque fictione, ut scilicet non praetendat exterius contrarium eius quod habet interius. Et ideo dicit ‘in caritate non ficta’ (1Gv 3, 18: ‘non diligamus verbo neque lingua, sed’, et cetera; Col 3, 14: ‘super omnia charitatem habentes’). Et huius ratio est quia, ut dicitur Sap 1, 5: ‘Spiritus Sanctus disciplinae effugiet fictum’. Consequenter ostendit quomodo se habeant in his, quae pertinent ad veritatem oris, ut scilicet sint veraces. Et ideo dicit ‘in verbo veritatis’, scilicet vera loquendo et praedicando”. Nella nostra traduzione italiana sono stati omessi alcuni rimandi alla Scrittura, per facilitare la lettura (i corsivi sono nostri); ci limitiamo a sottolineare, tra di essi, quello a Sir 6, 5 e quello a Col 3, 14, passi che nel primo capitolo di questo studio erano stati segnalati come significativi.
[264] La datazione della Lectura sulle lettere si san Paolo non è precisamente determinabile; tuttavia, pare che Super II Cor possa essere fatta risalire allo stesso periodo parigino durante il quale l’Aquinate lavorava al Sententia in Ethicorum e alla II-II; cfr. WEISHEIPL,Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere, p. 371.
[265] Le considerazioni di questo paragrafo e dei successivi prendono ampio spunto dall’articolo di MENNESSIER, A.-I., Douceur, in M. VILLER (dir.), “Dictionnaire de Spiritualité”, III, Paris 1957, coll. 1674-1685, e da TORRELL, Tommaso d’Aquino, maestro spirituale, p. 245-251. In italiano, “mansuetudine” sottolinea forse maggiormente lo scopo di moderare l’appetito, mentre “mitezza” rende meglio l’idea dell’atteggiamento dolce nei confronti del prossimo; spesso, tuttavia, mansuetudine e mitezza si possono utilizzare come sinonimi.
[266] S.Th., II-II, q. 157, a. 4, co.
[267] S.Th., II-II, q. 157, a. 4, ad 3.
[268] S.Th., II-II, q. 114, a. 2, ad 2.
[269] TANQUERAY, Compendio de Teología Ascética y Mística, n. 1156, p. 613.
[270] Cfr. S.Th., II-II, q.160, a.2, co.
[271] S.Th., II-II, q. 168, a. 1, ad 3: “exteriores motus sunt quaedam signa interioris dispositionis, quae praecipue attenditur secundum animae passiones (…). Et ideo moderatio exteriorum motuum potest reduci ad duas virtutes quas philosophus tangit in IV Ethic. Inquantum enim per exteriores motus ordinamur ad alios, pertinet exteriorum motuum moderatio ad amicitiam vel affabilitatem, quae attenditur circa delectationes et tristitias quae sunt in verbis et factis in ordine ad alios quibus homo convivit. Inquantum vero exteriores motus sunt signa interioris dispositionis, pertinet eorum moderatio ad virtutem veritatis, secundum quam aliquis talem se exhibet in verbis et factis qualis est interius”.
[272] Etica, IV, 14, 1129a.; cfr. Sent. in Ethic., 4, 16.
[273] S.Th., II-II, q. 168, a. 2, co. Punti in comune con questa impostazione si trovano nel commento dell’Aquinate a Fil 4, 5: cfr. Super Philip., 4, 1: “quasi dicat: ita sit moderatum gaudium vestrum, quod non vertatur in dissolutionem”.
[274] Ibid., a. 4, ad 3.
[275] In II Cor, 9, 7; questo tema, qui soltanto accennato di passaggio, meriterebbe di essere approfondito, nella linea suggerita da TORRELL, San Tommaso, maestro spirituale, p. 304, che cita proprio questo passo del commento alla seconda lettera ai Corinzi.
[276] Super Matth., 11, 3: “Et quid est illud ‘discite a me quia mitis sum et humilis corde?’ Tota enim lex nova consistit in duobus: in mansuetudine et humilitate. Per mansuetudinem homo ordinatur ad proximum (...), per humilitatem ordinatur ad se, et ad Deum”.
[277] Mt 5, 5. Particolarmente chiari ed espressivi sono alcuni punti del Catechismo della Chiesa Cattolica che trattano queste tematiche, e che riportiamo di seguito: n. 1716: “Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù. La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo. Le porta alla perfezione ordinandole non più al solo godimento di una terra, ma al Regno dei cieli”; n. 1728: “Le beatitudini ci mettono di fronte a scelte decisive riguardo ai beni terreni; esse purificano il nostro cuore per renderci capaci di amare Dio al di sopra di tutto”.
[278] Cfr. S.Th, I-II, q. 69, a. 3, co.
[279] Ibid. Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1830-1831, “la vita morale dei cristiani è sorretta dai doni dello Spirito Santo. Essi sono disposizioni permanenti che rendono l'uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo. I sette doni dello Spirito Santo sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. Appartengono nella loro pienezza a Cristo, Figlio di Davide (cfr. Is 11, 1-2). Essi completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono i fedeli docili ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine”.
[280] Cfr. S.Th., I-II, q. 69, a. 3, ad 3.; sant’Agostino sviluppa la dottrina sull’interconnessione tra le beatitudini i doni dello Spirito Santo nel Discorso del Signore sulla Montagna, PL 34, 1229-1308; il Vescovo di Ippona associa ad ogni dono anche una delle petizioni del Padrenostro.
[281] Exp. in orat. Dominicam, a. 2: “dulcis ac devotus affectus ad Patrem et ad omnem hominem in miseria constitutum”. Cfr. anche MENNESSIER, Douceur, col. 1679, che spiega come in S.Th., II-II, q. 121, a. 2, san Tommaso collegherà la pietà alla beatitudine della fame e della sete di giustizia e misericordia, mentre alla mitezza viene attribuita l’unica funzione di togliere di mezzo gli ostacoli per l'esercizio della pietà. Mennessier considera meno suggestiva questa interpretazione, rispetto a quella presentata nella I-II, q. 69, che pare seguire più da vicino il Discorso della Montagna.
[282] Cfr. Sermo Puer Iesu, 3: “si vis proficere in conversatione humana debes habere pietatem. Aliqui habent solum pietatem de se ipsis, ut in pace vivant et in sapientia proficiant; sed aliis condescendere nolunt. Tales proficere possunt in gratia apud Deum, sed non apud homines. Sed Jesus proficiebat in gratia et sapientia apud Deum et homines”; il passo commenta Lc 2, 52: “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini”.
[283] PHILIPON, M. M., Los dones del Espíritu Santo, Palabra, Madrid 31989, p. 300 (la traduzione è nostra).
[284] Gal 5,22-23.
[285] S.Th., I-II, q. 70, a.1 ad 1; acuto il commento di TORRELL, Tommaso d’Aquino, maestro spirituale, p. 247: “dal seme che lo Spirito Santo depone nell’anima al frutto delle beatitudine, passando tra i fiori delle nostre buone opere, è effettivamente tutto un programma”.
[286] S.Th., I-II, q. 70, a. 3 co.: “Ad id autem quod est iuxta hominem, scilicet proximum, bene disponitur mens hominis, primo quidem, quantum ad voluntatem bene faciendi. Et ad hoc pertinet bonitas. Secundo, quantum ad beneficentiae executionem. Et ad hoc pertinet benignitas, dicuntur enim benigni quos bonus ignis amoris fervere facit ad benefaciendum proximis. Tertio, quantum ad hoc quod aequanimiter tolerentur mala ab eis illata. Et ad hoc pertinet mansuetudo, quae cohibet iras”; questa dottrina è presentata anche in Super Sent., 3, d. 34, q. 1, a. 5, ad 1; a. 6 co. mette in rapporto i doni con le petizioni del Padrenostro; in questo testo, tuttavia, i tre frutti qui citati sono attribuiti alla beatitudine dei misericordiosi. Osservazioni analoghe a quelle della q. 70 sono presentate dall’Aquinate nei commenti alla lettera ai Galati e a quella ai Colossesi: cfr Super Gal 5, 6 e Super Col3, 3.
[287] Cfr. S. Th., II-II, q. 121, a. 2 ad 3.
[288] DE CEA, E., Affabilità, p. 57.
[289] Tt 3, 1-7.
[290] Super Tit., 3, 1: “Et ideo dicit non litigiosos esse. Ubi est sciendum, quod tria sunt genera hominum: quidam eorum sunt virtuosi, et duo vitiosi. Quidam enim omnibus verbis auditis in nullo contristantur, et hi sunt adulatores. Et quidam omni verbo resistunt, et hi litigiosi sunt. Contra hos loquitur hic. Ideo dicitur II Tim. II, 24: servum autem domini non oportet litigare, sed mansuetum esse ad omnes (...). Sed medium tenens, ut quandoque delectetur verbis, quandoque contristetur, est virtuosus. II Cor. II: si contristavi vos epistola, non me poenitet, et cetera”. Deinde cum dicit sed modestos, ostendit quomodo se habeant in operatione boni. Et primo in exterioribus actibus, dicens sed modestos. Est autem modestia virtus, per quam aliquis in omnibus exterioribus modum tenet, ut non offendat cuiusquam aspectum. Phil. IV, 5: modestia vestra nota sit omnibus hominibus(...). Quanto autem quis est impetuosior in interioribus affectibus, tanto refraenatur difficilius etiam in exterioribus. Talis autem est inter omnes affectus ira. Et ideo contra hoc ponit mansuetudinem, quae moderatur passiones irae. Unde dicit omnem mansuetudinem ostendentes ad omnes homines. Matth. XI, v. 29: discite a me, quia mitis sum et humilis corde”.
[291] Ibid.: “Interior caritatis affectus designatur in benignitate, quae dicitur bona igneitas. Ignis autem significat amorem (...). Benignitas ergo est amor interior, profundens bona ad exteriora. Haec ab aeterno fuit in Deo, quia amor eius est causa omnium”.
[292] Bar 3, 38. La NV traduce al femminile questo versetto, perché il soggetto diventa la Sapienza: “in terris visa est et cum hominibus conversata est”; poiché il senso dell’argomentazione non cambia, si è lasciato al maschile, con riferimento diretto a Cristo, secondo il testo della Vulgata e la citazione di san Tommaso. Per inciso, si noti che il termine latino conversor rende l’italiano “convivere, vivere insieme” e non “conversare”; così è utilizzato in latino classico, nella Vulgata e nel latino medioevale.
[293] S.Th., III, q. 40, a. 1 co.: “Venit autem in mundum, primo quidem, ad manifestandum veritatem (…). Secundo, venit ad hoc ut homines a peccato liberaret (…). Tertio, venit ut per ipsum habeamus accessum ad Deum, ut dicitur Rom. V. Et ita, familiariter cum hominibus conversando, conveniens fuit ut hominibus fiduciam daret ad se accedendi”.
[294] Cfr. per esempio Mt 6, 2; Mt 23, 26-27; Mc 7, 6.
[295] A questa conclusione giunge WHITE, Affabilitas and veritas in Aquinas: The Virtues of Man as Social Animal, p. 652-653. Per una citazione esplicita delle virtù sociali, cfr. invece PAOLO VI, Ecclesiam suam, n. 83, che elenca tra i caratteri del dialogo apostolico la chiarezza, la mitezza (o affabilità) e la fiducia; il tema della fiducia si può ricollegare a quello della parresia ofranchezza già riscontrato nel Nuovo Testamento e nei Padri.
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